pantani

I pantani del giornalismo alla Tornasol

Ero, come tanti, un tifoso di Marco Pantani, mostro sbattuto in prima pagina a un passo dalla gloria. Piansi quando scoprii dalla televisione, per bocca di qualche giornalista, che il campione era fuori dal giro che avrebbe di certo dominato perché alcune analisi lo avevano trovato positivo a dei farmaci.

Anche un tifoso, se si fermava al titolo, poteva pensare che fosse doping. Perché se lo diceva la tv doveva per forza essere vero.

In questi giorni, leggendo qualche testata nazionale che parla del cavallo Tornasol, descritto prima come uno Spartacus che si ribella a chi voleva fargli fare il gladiatore e poi semplicemente “positivo ai farmaci”. Questo è il titolo di Repubblica. Mica Corriere di Geggiano.

Allora mi chiedo quale sia il mestiere di un giornalista se non quello di capire prima e poi spiegare agli altri come stanno le cose.

Se mi fate un prelievo anche io sono positivo ai farmaci. Prendo le pasticche per la pressione, un protettore della stomaco per un’operazione fatta anni fa e anche i fermenti lattici per rimettere a posto l’intestino dopo un’estiva dissenteria.

Siamo tutti positivi ai farmaci. E’ una notizia? Siamo dopati? Spiegatecelo, voi che fate i titoli che dicono il 10% della verità.

Il giornalismo, fatto alla Tornasol rischia di creare pantani (senza maiuscola) perché il 90% dei lettori legge soltanto il titolo e quel “positivo” (lo abbiamo imparato negli anni ’80 grazie all’HIV) significa sicuramente: “male”.

Pochi di quegli scienziati che amano commentare contro ogni giorno della loro vita, si è spinto a leggere quello che il giornalista avrebbe dovuto scrivere fin da subito: i farmaci trovati sul cavallo non c’entrano niente con il doping. Non c’è niente di marcio sotto il sol.

E allora, visto che la moda dei nostri tempi è quella di trovare le colpe, la colpa non è solo del giornalista (magari un giovanissimo malpagato al quale è stato detto di fare una brevina da cinquantesima pagina). La colpa è dei caporedattori, dei direttori che non insegnano ai giovani giornalisti che il primo obiettivo è quello di raccontare la verità.

Ma il mondo che si basa sui like ha bisogno di essere divisivo, di creare dei nemici, di portare gli sprovvediti senza cultura a commentare con violenza senza sapere di cosa si parla. Sia che si tratti di un vaccino , sia che si tratti di un cavallo da Palio. Senza curarsi delle conseguenze. Senza preoccuparsi se quell’articolo possa o meno far pensare che  Cristo è morto dal sonno.

Senza capire la pericolosa differenza tra raccontare Pantani e crear pantani.

 

 

jon snow

Il giorno in cui finirà Il Trono di Spade

 

Il giorno in cui finirà “Il Trono di Spade” sarà più o meno come il giorno in cui ti dicono che devi proprio smettere di farti le pere. “Hai capito?! Devi smet-te-re!”
Inizialmente ci sentiremo liberati; sono otto anni che siamo entrati nel tunnel, ma già dal giorno dopo, come tossici in cerca di una dose, andremo a rivederci la prima puntata della prima stagione. Lo faremo con gli occhi pieni di pianto, perché, di certo, nell’ultimissima puntata qualcuno a cui ci siamo affezionati morirà di sicuro. Perché gli autori de “Il trono di spade” non hanno fatto lo stage alla Disney: il lieto fine scordatevelo. I bambini o vengono accoppati o gambizzati, nel migliore dei casi restano orfani e gli tocca iniziare a tagliare gole; le fanciulle se sono buone e belle vengono avvelenate, stuprate o fatte saltare per aria (e non sempre in questo ordine); gli eroi decapitati o mutilati; i ritardati schiacciati davanti a una porta, i nani traditi.
Ciò di cui non possiamo fare a meno in questa serie è il verismo della crudeltà che, infilato tra draghi e giganti, ci fa sentire meno sadici.
Come succede quando sei obbligato a recarti al SERT, ti daranno un po’ di merchandising per farti passare l’astinenza e allora sceglierai la maglietta con il lupo o con il totano dei Greyjoy, per fare lo sfigato con le palle (che poi i Greyjoy, diciamocelo, non è che brillino per questo). Oppure ti troverai su Amazon a cercare con la bava alla bocca la action figure di Hodor o di Brienne di Tarth. Io sceglierò quella del grasso ubriacone Robert Baratheon, ma non vi dirò mai il perché.
Quando finirà il Trono di Spade pregheremo i vecchi e i nuovi Dei che almeno ci mandino in onda uno spin off su Valirya o su i Guardiani della Notte. Andremo su youtube a cercare informazioni sulla fine che hanno fatto quei pochi che si sono salvati dal fuoco dei draghi o dall’altofuoco.
E sarà così fino a che qualche nostro amico pusher non ci spingerà verso una nuova serie per la quale rischieremo di nuovo l’overdose.
Perché si può anche vivere senza droghe, si può smettere con fatica di bere e di fumare e anche del sesso se ne può fare, con l’esperienza, a meno. Ma, fino a che siamo vivi, qualche dipendenza bisognerà pur averla.
Man suffers from diarrhea holds toilet paper roll

Diosmectal non è una bestemmia

Quando mi chiedevano cosa avrei voluto fare da grande rispondevo: voglio essere Adamo. No, non per girare nudo come un baco per il Paradiso, né per lavorare con sudore per aver mangiato una mela: la quale toglie sì, il medico di torno ma ti mette anche nei casini se ti avevano detto di non prenderla.

Volevo essere Adamo perché era quello che per primo dette i nomi alle cose. Vuoi mettere quante fatture da copywriter avrei potuto staccare. Avrei fatto di meglio di quello che chiamò la candela “moccolo” o di quello che vedendo un fiore giallo lo nomò “pisciacane”.

Sicuramente non avrei potuto fare meglio del copy che ha dato il nome a quella medicina che ho preso oggi in farmacia: il Diosmectal.

Vuoi per il caldo di Caronte, vuoi perché questo Palio mi è rimasto indigesto, fattostà che è dal 3 di luglio che passo le notti in bianco. Ora, bianco è una parola grossa. Diciamo marroncino. Ecco, rende di più l’idea.

Stamani sono uscito di casa come se mi avesse svegliato George Romero e mi sono trascinato a lavoro dopo aver seguito tre giorni di consigli naturali e “omeopatici”.

“Prendi un teino caldo col limone”. Certo! L’ho fatto. Con la conseguenza che mentre ero al bagno sudavo anche.

“Prendi un paio di banane”. Sì ma l’unico modo perché abbiano effetto è che mi ci metta a sedere sopra.

“Fatti una pasta in bianco!”. Tortellini con la panna è in bianco, vero?

Insomma, niente. Nulla da fare. L’unica sensazione era quella di avere Barry White nel duodeno. Gonfio e gorgogliante con tonalità che sfiorano il rutto.

Così mi sono deciso e sono entrato in farmacia. La farmacista, alla quale ho raccontato per filo e per segno tutto senza vergogna (questo blog mi ha azzerato i freni inibitori), mi ha detto: “Ci penso io!”

E’ tornata con una scatola contenente delle bustine dicendomi: “Una subito e una prima di andare a letto!”.

Io ho preso quella “subito”.

E’ praticamente un etto di calcina che devi ingoiare mescolata con l’acqua. Il problema è che non si scioglie e resta in fondo al bicchiere. Così la devi prendere a cucchiaiate.

E’ MIRACOLOSO!!!

Credo l’abbia inventato quello che tirò su il Muro di Berlino in una notte. Si forma un parapetto matton per ritto tra i colon e l’intestino tenue. Senti questa muraglia cinese in cui la flora batterica, ormai separata per sempre, cerca di mandarsi messaggi in bottiglia. Sei murato vivo! Se lo scopre Trump, addio Messico.

Ma sei felice.

E’ così che deve essersi sentito il copy che gli ha dato il nome: “Diosmectal”. Basta una bustina e smetti di fare tutto. Soprattutto di bestemmiare.

La domanda che mi pongo adesso è: quella prima di andare a letto, a che serve?

dita cotte

Il Palio delle dita cotte

I giorni dopo il Palio sono terribili, specie se hai sfiorato con la mano il premio dei “calci in culo” e ti sono rimasti soltanto i calci in culo.

E’ come quando sei in mare, da bambino e sai che quando uscirai avrai freddo, la schiena inizierà a bruciarti perché il sole si prende anche se sei in acqua e magari troverai anche la tua nonna ad aspettarti con una ciabatta in mano perché “se hai le dita cotte si fanno i conti”.

Dopo il Palio si fanno i conti. Soprattutto con se stessi. Soprattutto con il proprio fisico che non è mai stato stellare, ma che ora ti ha mandato la fattura.

Si fanno i conti con il proprio portafoglio, dove, se va bene, ci trovi la tessera di una cena che non ti ricordi di aver fatto. E ti racconti che forse è meglio che sia andata così, che poi sennò volevo vedere come facevo a pagare la sottoscrizione.

Fai i conti con la tua casa, che sembra offenderti da ogni stanza che hai trascurato per giorni, che hai abbandonato perché non ti serviva, come un cane in autostrada.

E allora ti aggrappi a quel mare in cui ti si cuociono le dita ma che, fino a che ci sei dentro, ti senti quasi protetto da tutte le cose che ci sono in spiaggia. Anche se i cavalloni sono forti e ti capita di infilare il capo sott’acqua. Anche se ti bruciano gli occhi e se hai bevuto due boccate di acqua e sale.

Il mare fa paura ma è una calamita che ti tiene stretto. E se ti allontani ti riporta dentro, maledettamente. E chi ci si tuffa ne viene stregato. Qualcuno ci affoga. Qualcuno ci diventa un eroe. Qualcuno ci perde tutto. Qualcuno ci trova un tesoro. Qualcuno ci si perde.

“Dai, Giampiero, esci. Sono quarant’anni che ti sei tuffato, ora basta!”

“Hai ragione, ma fammici stare ancora un altro pochino…”