caramella

La caramella amara che non puoi sputare

Il dolore per la perdita di un amico è una caramella amara che non puoi sputare. Ci sono caramelle piccole e altre grandi come una pallina da ping pong, che non lasciano spazio a nessun altro sapore e che un dio pagano molto bastardo ha deciso di metterti in bocca, solo perché ne aveva voglia.
Una caramella di fiele, foderata di radicchio e impastata col cerume. Dura come un sasso.
Ti tocca tenerla lì, e tutto quello che provi a mettere in bocca, anche fosse miele, ti sembra amaro. E non c’è requie: giorno e notte hai l’amaro in bocca.
Ci sono alcuni che hanno la saliva più forte, forse più acida, e dopo un po’ di tempo, riescono ad ingoiarla. Altri che hanno una saliva più dolce e proprio non ce la fanno. Che vivono costantemente con la voglia di vomitarla. Ma quel dio bastardo ha deciso che deve restare lì.
E allora ci vuole pazienza. Che se non ce l’hai vorresti morire anche te.
E avresti voglia di masticarla, di romperla come fai con le caramelle di zucchero. Ma i tuoi denti sono denti che se schiacci forte si rompono. Io c’ho provato a romperla e ho perso tutti i molari. Allora ho cominciato a succhiarla, in silenzio, prendendola per sfinimento. Per farla ammorbidire. O almeno ci provo. Grattandole i bordi come il conte di Montecristo che, per uscire di galera ci provava con un cucchiaino. E a forza di succhiare cerco di isolare l’amaro dagli altri sapori che la vita mi propone. Vabbè, l’amaro prevale ma si comincia a risentire anche il salato, il frizzante, il piccante. Ci vuole tempo, non bisogna avere furia. Che via via, di caramelle amare più o meno grosse, ti toccherà risucchiarle. E se non ti abitui, ti dimentichi di quando eri un bambino e le caramelle che ti davano avevano solo un sapore dolce. Quello che le caramelle dovrebbero avere.

Siena, 1 giugno.

Obama

Barack & burattini

Alcune piccole premesse per chi dovesse leggere questo post:
1) non sono uno che ha la puzza sotto il naso, ma nemmeno uno con l’anello al naso
2) non sono radical, né tantomeno chic
3) forse, se fossi stato in città ieri, il mio filmino con Obama l’avrei postato anche io
4) voglio bene a Siena esattamente come voi, né più, né meno.
5) se venisse un Obama al giorno sarei più che felice

Bene, ora posso partire a scrivere.

Ho visto sui social un grande interesse tra i miei concittadini per l’arrivo di Obama a Siena. Bene. Mi ha ricordato l’arrivo di Carlo V salutato da folle festanti. Quindi mi giunge d’obbligo, per amor di metafora, provare a ragionare “alla senese” per cercare di spiegare quel che penso di Obama.

Obama è l’ex capitano di quella contradona che ci ha fatto fare da sgabello fin da quando nel ’44 ci fece togliere la cuffia. Che c’entra, è vero anche che nel ’44 si veniva fuori da un periodo nero e che negli ultimi due o tre anni ce ne avevano date come noci. Ê vero che ci pagarono il Palio e ci ricostruirono la società che ci avevano bombardato. Ci dettero fantino e rincorsa. Da allora siamo alleati ma il rinfresco glielo facciamo solo noi. Che c’entra, gli s’è mandato una manciata di delinquenti a vivere nel loro territorio che si sono anche organizzati e qualche volta sono entrati anche in Seggio. Però loro c’hanno messo le mattonelle e i braccialetti nelle nostre strade, quando ci sono le elezioni, la commissione elettorale sente anche loro. Una volta ci hanno fatto trovare un nostro ex priore in un bagagliaio e ci hanno tirato un missile nel palco per le prove. Ma non è sicuro che siano stati loro.
Ragazzi, non scherziamo, mica dico che la cuffia sarebbe stata meglio, o che sarebbe stato meglio essere sgabelli della loro avversaria. Però c’è toccato ingollare diversi fantini che facevano quello che conveniva a loro, specialmente il Gobbo Saragiolo. Ogni tanto c’hanno fatto vincere qualche prova, anche qualche Palio via via per farci credere che si stava bene. Però, diciamocelo, si voleva essere liberi di comandare e c’hanno soverchiato. E ce lo siamo anche fatto garbare.
Ieri è venuto l’ex capitano, quello simpatico, uno del popolino a giudicare dal colore. Infatti, come quelli del popolino, gioca a golf e fa una bella sottoscrizione.
Il capitano nòvo, invece, non mi garba per niente. Alle elezioni è passato male e gli si sono dimessi già un mangino e il vicebarbaresco. Ha fatto il capitano solo perché è pieno di quattrini. È uno che le spara grosse. Secondo me non arriva alla fine de mandato. Lo fanno dimette’ prima.
Almeno poi ritorna quello ganzo, che mangia la tagliata coi porcini del congelatore. E quando girano gli si riapre la chiesa e gli si spiega colle bandiere. Che tanto come bisogna fare il Palio ce lo spiega lui.

La borsa degli spilli

Mio Nonno Giovanni faceva l'”apparatore”. Era l’unico a Siena che faceva quel mestiere. Anche il correttore di word me lo segna di rosso e questo la dice lunga su quanti apparatori ci siano in circolazione. Credo che mio nonno sia stato l’ultimo. Un apparatore era un artigiano che, avendo a disposizione competenze, stoffa e talento da tappezziere, veniva chiamato da tutti quelli che a Siena e provincia dovevano “apparecchiare” un evento mondano con stoffe e tappeti. I suoi lavori erano gli allestimenti delle Chiese dove si celebravano cerimonie, gli eventi istituzionali, i comizi politici e qualche altra occasione per privati disposti a spendere nel bello. Mio Nonno e mia Nonna Marina mi hanno cresciuto tra la casa dove ora vivo e la loro bottega che si trovava in fondo a Costalarga in quello slargo che tramuta Casato di Sopra in Casato di Sotto, proprio accanto al Bar di Giangio. Nanni parlava poco con tutti, tranne che con me e, nonostante le sue labbra sempre piene di spilli, mi ha insegnato che per parlare con un bambino non bisogna cambiare la voce, basta cambiare le parole. Il Nonno aveva una borsa di cuoio dentro la quale teneva martello, pinze, tenaglie, tronchesi e una miriade di spilli. Una volta ci infilai una mano e mi ricordo ancora bene che fu come se l’avessi messa dentro ad un alveare. Piansi mentre lui rideva. Per farmi calmare mi portó a Pian delle Fornaci “a pulire le guide”. Proprio dietro l’ippodromo c’era un prato che, la mattina, verso la fine dell’estate, quando sull’erba si forma la rugiada, era il luogo ideale per togliere la polvere dai lunghi pezzi di stoffa che venivano messi in terra a mo’ di “red carpet” durante una cerimonia. Io mi sedevo in fondo alla guida per fare da contrappeso e lui dalla parte opposta mi trascinava sull’erba bagnata per decine di metri che servivano al tappeto per ripulirsi e a me per sentirmi Aladino sul tappeto volante. Poi si ritornava a bottega in quella decrepita Renault con il gobbino portafortuna attaccato allo specchietto. E la borsa degli spilli non faceva più male.

Quando ci ripenso mi ricordo ancora dell’odore di quella borsa. Era l’odore di tutte le chiese del mondo, di tutti i palazzi e di tutta la polvere che c’era dentro. A volta mi capita ancora di infilare la testa nei miei ricordi del passato più o meno recente. Alcune le volte ci trovo gli spilli, altre la rugiada.

Forse, il più grande insegnamento che mi ha dato mio Nonno, ora che sono un uomo e lui non c’è più, è che, con il tempo, anche una borsa di spilli, che quando ci mettevi una mano ti faceva piangere, può trasformarsi in un ricordo bello e dolce.

ginocchio sbucciato

I ginocchi sbucciati

A Siena le ginocchia si chiamano “ginocchi” per cui passatemi la licenza poetica del titolo.

Stamani ho rivisto, dopo tanto tempo, un esemplare di bambino con i ginocchi sbucciati. Credevo fossero in via d’estinzione e invece, quel ragazzino che andava a scuola con un pantalone della tuta alzato e con il ginocchio fasciato da una garza, mi ha rimesso in moto la mia macchina del tempo personale. Mi ero rassegnato al fatto che i bambini avessero smesso di giocare per la strada procurandosi delle ferite e quella gamba malconcia mi ha restituito una speranza. La speranza di rivedere qualche gruppetto di bambini che, invece di andare a scuola, si trovano in Piazza del Mercato a fare il Palio delle biciclette, tirandole a sorte perché nel Palio si fa così e poi tornano a casa inventandosene un’altra per giustificare quei jeans strappati e sanguinosi. Mi ero rassegnato al fatto che a forza di difendere i nostri figli dal bullismo, gli abbiamo tolto l’educazione dello scapaccione, della masa, del biscotto, della piffera dati a fin di bene.
Mi ero rassegnato al fatto che, in un mondo in cui tutto è organizzato, anche il tempo libero ci rende prigionieri. Prigionieri di orari da rispettare, di lezioni di sport dove gli amici non li scegli da solo, prigionieri di un’educazione che non prevede la maleducazione che si trova in natura nel corso della vita. I ginocchi sbucciati erano un dolore terapeutico, perché la vita ha bisogno di croste che si formano e poi staccano al tempo giusto. E se provi a staccarti le croste dal ginocchio prima del tempo, nove volte su dieci tocca ripartire da capo, dalla carne viva. Ed è più facile che resti la cicatrice.

Siano benedetti i ginocchi sbucciati e sia benedetta la vita, anche quando è dura e grigia come la pietra serena.

Torre del Mangia

Se crollasse la Torre del Mangia

Se una notte, prima di andare a dormire, noi che si abita in centro a Siena, si sentisse un boato e se, correndo a vedere quello che è accaduto, si scoprisse che è venuta giù d’un tratto la Torre del Mangia, i telefoni si paralizzerebbero. Ognuno chiamerebbe i propri cari come quando muore all’improvviso un parente. Si correrebbe tutti in pigiama alla Costarella per vedere se è vero, con le mani nei capelli. Lì si troverebbe sicuramente qualcuno che si conosce bene e qualcuno, che anche se si conosce poco, per quella sera diventerebbe uno con cui dialoghi perché devi condividere qualcosa che ti fa stare male. Ci sarebbe anche di sicuro qualcuno che sghignazza, perché lui l’aveva predetto che con quel capoccione di pietra prima o poi sarebbe venuta giù. Ci sarebbe chi piange e chi bestemmia, alcuni addirittura piangerebbero bestemmiando, altri starebbero zitti accoccolati al muro, altri ancora si abbraccerebbero singhiozzando. Si tornerebbe a letto all’alba aspettando il giorno dopo per vedere se viene giù anche il Facciatone, o San Domenico, non riuscendo a prendere sonno con gli occhi pieni di paura.
Poi il giorno dopo non crollerebbe nient’altro e la paura di tutti diventerebbero 55.000 voci diverse che vogliono dire a loro dividendosi in gruppetti.

Ci sarebbero i “colpevolisti”: quelli che devono capire a chi dare la colpa, perché se la Torre è crollata dovrà pur essere colpa di qualcuno. Tra questi si nasconderebbero abilmente i “cavalcatori di disgrazie” che punterebbero il dito su qualcuno per un tornaconto preciso e personale: “Secondo me la colpa è del custode che ha sbatacchiato la porta, lo conosco bene, è quello che tromba la mì moglie…”, oppure “è colpa del Comune, con tutti quei turisti appoggiati al Palazzo a bivaccare”, o ancora “è colpa di chi faceva le tre a bere in Piazza, con quelle fiatate d’alcol la Torre sbarellava!”.
Poi ci sarebbero gli “èandatacosisti”, quelli che, di fronte all’evidenza, si stringerebbero tra le spalle dicendo: “che ci vuoi fare, è andata così”, continuando a macinare la loro vita come il criceto dentro una ruota. Tristi, ma ormai è andata così.
Tra questi ci sarebbe una nicchia di “buonvisoacattivogiuochisti” che guarderebbero il Palazzo del Comune, ormai senza Torre e Cappella e direbbero, sottovoce, per non farsi sentire bene, “tutto sommato, così il Palazzo è più simmetrico”.

Ci sarebbero gli “sciacalli”, quelli che cercherebbero di lucrare sul dramma vendendo calcinacci e i “tordi”, quelli che comprerebbero un pezzo di mattone perché almeno si porterebbero un pezzetto di Torre del Mangia in Camera.
Ci sarebbero i “romantici”, quelli che in gruppo, meglio se dopo qualche gotto, si troverebbero nottetempo a guardare il vuoto dove prima svettava la Torre, cantando cori a quattro o cinque voci con le lacrime agli occhi.
Ci sarebbero i “guardoni” quelli che verrebbero a Siena per farsi un selfie con la Piazza mutilata.
Ci sarebbero tanti che starebbero a giornata a litigare per difendere la propria versione dei fatti.
Ci sarebbero quelli che si rimboccano le maniche per provare a ritirarla su, quella Torre, e quelli che criticano quelli che si rimboccano le maniche.
Ci sarebbe quello che ha capito esattamente come si sono svolti i fatti, ne è proprio certo, e che ce lo ripete ogni giorno dal suo blog.
Ci sarebbe qualcuno che è rimasto schiacciato sotto la Torre e che verrà ricordato soltanto il giorno dell’anniversario.

Poi ci sarei io, che sarei contemporaneamente: “colpevolista” e “èandatacosiista”, “romantico” e con le maniche rimboccate a non fare niente e a mettere mi piace il giorno dell’anniversario della tragedia. Ma con la stessa identica convinzione di ognuno degli altri, di essere quello che ama Siena più di tutti.

cuore

Il cuore a fette

Ieri Massimo ci ha rimessi tutti in fila. Come faceva per i compleanni di Marchino a casa sua. Quel rompiscatole che ti faceva alzare a raccattare lo stecco del gelato che avevi tirato nel ghiaino in Società; quel babbo che se non era il tuo babbo era solo un caso, ieri ci ha rimessi tutti in fila. Senza dire niente, lui che chiacchierava poco ma che c’era sempre, da sempre. Non è stato facile per niente. Perché appartenere ad una Contrada non è mica come fare parte di un gruppetto di amici e basta. E’ appartenere a un popolo che, come tutti i popoli: festeggia, si scontra e si divide. Ma in certi casi torna insieme a guardarsi negli occhi lucidi. Te sei lì, fuori da quella chiesa che osservi tutti, sapendo benissimo chi è che fino a ieri nemmeno si parlava e oggi, per rispetto, si dice “ciao”. Senza falsi sorrisi, sia chiaro, che tanto oggi di sorridere non c’è bisogno. Quando esce di scena un grande contradaiolo non c’è bisogno di darsi l’appuntamento, tanto trovi tutti lì. Perché quando tiri la riga in fondo al foglio, e la bilancia pende dalla parte della grandezza, anche chi fino a ieri non ti considerava, si toglie il cappello.

Fare parte di una Contrada ti condanna ad averci il cuore a fette. Ed è una condanna che devi ingollare perché fa parte del gioco. Tante volte. Fino a che il cuore che si ferma non sarà il tuo.

 

Ciao Massimo, ci si rivede ai Quattro Cantoni.

Lo so bene che non ci sarai. Ma io ti vedrò lo stesso.

Carlino Carlo castellani

Carlino, il Re delle Linguacce

Per quanto possa essere bravo a recitare, un goliardo vero la parte del goliardo non la recita mai. Lo è e basta, fino all’ultimo. Carlo Castellani detto Carlino, la Goliardia ce l’aveva dentro con tutti i suoi colori: la comicità, la buffezza, l’ironia, il romanticismo, il sarcasmo, il cinismo, il gusto per la risata facilissima e per quella altamente sofisticata, la modernità e il classicismo, il rock, il rap, il jazz e lo swing, il buon gusto e il disgusto.
Una persona composta da sfaccettature così antitetiche che anche i suoi incisivi andavano uno da una parte e uno dall’altra.

Se è stato il tuo regista non puoi non ricordare il ritorno a casa dopo i ritrovi a scrivere: mentre ti toglievi il maglione per andare a letto, sentivi l’odore di un incendio in tabaccheria. Me non puoi dimenticare le risate che si facevano a vederlo spiegarti tutti i personaggi, fatti da lui che aveva una mimica da saltimbanco della commedia dell’arte. Totò, Dario Fo e Crozza messi insieme ma senza la spocchia di un premio Nobel o di un attore strapagato.

Quando andò in pensione pubblicò una foto su Facebook mentre timbrava il suo ultimo cartellino in mutande: era la sua parodia di quei furbetti che lo facevano a Sanremo senza scherzare.
Lo trovai alcuni giorni dopo e mi disse: “Te lo immagini, ora mi danno lo stipendio per non fare una sega…”
La sua nuova condizione di pensionato non lo convinceva mica tanto. Piuttosto che invecchiare è meglio perfino andare a lavoro, pensa un po’.
Per uno che ha macinato serate a fare tardi una dietro l’altra, come fossero sigarette, dover smettere di fumare è un bel contrappasso.

Lo abbiamo brontolato quando è venuto a vedere le prove dell’ultima operetta di quei rincoglioniti di dottori. Ha dato due boccate e qualcuno, saggiamente, gli ha detto: “O Carlino, ma allora non ti vuoi rassegnare a non morì…”
Lui ha fatto una risata, ha spento la sigaretta e ha cambiato discorso: “Fatemi vedè questa scena, vai…”
Quando muore un goliardo non dovete piangere per lui. Se era un goliardo, la Vita l’ha rigirata come un calzino. E se l’è goduta boccata dopo boccata. Semmai piangete per voi stessi che lo avete perso.
“O Carlino, dai retta, come hai fatto hai fatto bene!”.

Grazie per tutte le linguacce che ci hai lasciato in eredità.

Tuo, Tagliatella

PS. Un grande abbraccio a Martino

Operetta

L’Operetta vista dal palco

Ore 4 e 28: ho appena lasciato Buzzo in cima a Via San Marco. Lui si butterà giù per il Fosso di Sant’Ansano, io girerò a destra per Via dei Maestri. Trovo uno studente pluribollato con la fidanzata. Mi immagino che per lui la nottata non sia ancora finita. Ci abbracciamo e proseguo. C’è molta nebbia, ma stavolta è fuori e non dentro la testa. Mi sono mantenuto lucido perché me la volevo ricordare tutta. Non ho ancora voglia di andare a letto e imbocco via delle Cerchia per fermarmi a Sant’Agostino: devo finire un sigaro cubano e devo scrivere qualche pensiero che poi si sa, ritrovarli la mattina dopo è sempre difficile. C’è quella sana felicità che fa da sedativo. Non gioia, badate bene, quella ce la può avere solo uno studente; felicità. Una cosa che ti rimane dentro e ci resta, insieme ai bei ricordi. Forse sarà stata l’ultima volta che sono salito su un palcoscenico, chissà. Ma la felicità è quella di avere superato un’altra cosa della vita che non era semplice portare in fondo. La cosa bella di stare sul palco per un’Operetta è che mentre sei sul palco e reciti, vedi uno spettacolo: quel palchetto pieno di citte che tanto citte non sono più; l’addetto alle musiche che frana sul tastierista; il dottore al sax che pensa che la canzone attacchi dopo altre venti battute; il tuo Capitano che ti guarda e ti sorride convinto che tu non lo veda; i goliardi che un tempo ti astiavano che offendono il regista perché non ti ha concesso il bis della canzone; un tuo amico che si è spiaggiato nel loggione; le voci di quelli che hanno comprato il biglietto per vedere L’Operetta al bar del teatro; quel dottorone che soffre di ipertensione e che se non esce a pisciare entro la fine della tua scena si trasformerà in pozzanghera; la mamma di un principe che si sbraccia per tirarti un bacio; l’avvocato che quando lo indichi e dici: “quello è pelato e trippone insieme” prima ride e poi si gira sperando di non essere lui quello che ho indicato, le matricole che ancora non ci stanno capendo niente ma che iniziano ad intuire che sarà un bel mondo. Poi ci sono quelli in scena con te, dal giovane Baliota a quelli con cui recitavi venti anni fa: quel Bancario che tutto l’anno scrive su Facebook cose irripetibili e che continua a trattarti come un suo megabollato, il Chirurgo che ha smarrito il crine ma che non ha mai perso una battuta (la prossima volta fai la donna, però), il Dentista polemico a tutti i costi che però alla fine ti deve dare ragione (anche se la ragione la vuole un pochino anche lui) e il Supercantantone da mille bis che vedi saltellare dietro le quinte come un bambino a cui è stata regalata la pista della Polistil. Ragazzi, non avessimo più di 40 anni vi direi che vi aspetto a maggio per rifare una scena insieme. Vabbè, si andrà a cena. E poi si va a chiedere il bis a quelli giovani, ok?

Per me la libidine di stare sul palco è questa: vedere uno spettacolo che puoi osservare soltanto te, perché per ognuno è diverso. E non c’è mai il bis.

Ora però vado a dormire, con le gambe pesanti e la testa leggera.
Grazie a tutti e buonanotte.

bubba

La voce di Bubba

Una delle cose più tremende che ti può capitare quando cominci a fare le Feriae è presentarti senza disporre di un soprannome consolidato e autorevole. A me andò abbastanza bene: quando gli anziani mi chiesero chi (cazzo) fossi e risposi “Tagliatella”, quel soprannome alimentare passò il vaglio quasi senza problemi. Vabbè, iniziarono le storpiature inevitabili per cui per qualcuno di quelli più vecchi di me sono ancora: “Taglialatela”, “Tagliata”, “Taglias”, “Tà”, Tagliamerda”. La maggior parte di chi mi conosce mi chiama “Taglia” e, dato che di taglie ne ho cambiate molte andando e venendo dalla 46 alla 60, mi sembra appropriato.

 

Il problema è per chi il soprannome non ce l’ha all’inizio della sua carriera goliardica. In quel caso i famelicissimi fagioli si sbizzarriscono inventando epiteti che vanno dalla ricerca di un’improbabile somiglianza fisica con qualche celebrità internazionale o locale (vedi “Cartesio” o “Rondone”, “Jimmy Vecchio”), o una caratteristica anatomica (es. “Testa”, “Sguardone”, “Buzzo”, “Birillo”). E fino a qui tutto bene, diciamo. C’è poi il caso in cui il soprannome è unicamente dispregiativo e dato solo per un infausto aneddoto racimolato durante una sbornia clamorosa. Questo tipo di soprannome te lo porti dietro malvolentieri anche perché quando sarai in Balia o addirittura Principe, non sarà facile presentarsi come Schizzapiscio, Canale della Merda, Kakkola, Mangiamerda, o Sputo.

 

Ero fagiolo quando iniziò a fare le Feriae da matricola quello che secondo me è il più grande cantante goliardico degli ultimi 25 anni (dopo Roby Ricci, si intende). Si presentò come Andrea e vedendo dei labbroni africani che ricordavano quelli del migliore amico di Forrest Gump che gestiva barche di gamberi e che quando diluviava gli pioveva in bocca, lo soprannominammo “Bubba”.

Che voce che c’ha Bubba! Avrà fatto 100 bis nelle varie rappresentazioni della sua vita da attore di operette. L’altra sera l’ho visto riprovare il Mascara (successo dell’anno 2000 cantato in coppia con Nix). Eravamo in una decina dentro una stanza che sembrava una camera iperbarica a gas tanto era il caldo e il fetore. C’erano i musicisti, il responsabile delle musiche Amalio, l’autore del “Mascara” Buzzo e alcuni guardoni come me. Quando è partita la voce di Bubba si è rizzato il pelo sulle braccia a tutti. E qualcuno c’aveva anche “la gocciola”.

Che libidine! Aveva ragione l’ottimo Forrest Gump. I compagni di scena nell’operetta sono come una scatola di cioccolatini; non sai mai quello che ti tocca. A me è toccato il meglio.

Se volete venire a vederci, venerdì 25 e sabato 26 novembre per l’Operetta straordinaria “Una città di scienziati” ci siamo anche noi, insieme ad un’altra cinquantina di cioccolatini più o meno saporiti.

 

una città di scienziati

Il ritorno dello Jackyill

Era il mio ultimo anno di università quando mi inventai “Lo strano coso del Dottor Jackyill”: l’operetta voluta dal Principe Carlino Pini per il glorioso anno goliardico 2000. La regia era di Luca Virgili (noto per il grande, grandissimo pubblico come Fresco). Le canzoni di Francesco Marchetti (Sogliola) e Carlo Lorenzini (Buzzo). Tra tutte le canzoni spicca sicuramente il Mascara, cantata egregiamente da Bubba e Nix, oggi rispettivamente professore di lettere e dentista. La strana fissa del Dottor Jacyill era inventare una cosa che, arrivato alla tenera età di 50 anni non aveva mai visto, neppure dipinta. E così si dipanavano due ore di battute tra crisi di nervi, Regine d’Inghilterra, guerrieri Maori, guardie di Buckingham Palace e mostri vari.
Molti sostengono, con buona ragione, che ogni cosa abbia il suo tempo. E spesso sono d’accordo anche io. Però, quando mi è stato chiesto di riportare una scena del Jackyill sul palco dei Rozzi, all’interno dell’Operetta “Una città di scienziati”, non c’ho pensato un attimo a non dire di sì.

I motivi sono molti: il primo è perché ritrovare in scena amici che si erano allontanati per vari motivi della vita, è ganzissimo. Secondo perché rivedendo alcune scene abbiamo riscoperto che erano buffe per davvero, terzo, perché invecchiare, ve lo giuro, è una gran cacata e a noi non ci garba.

State tranquilli, io e Rotolone non siamo mai in scena insieme per cui il palco reggerà. Ci saranno anche il Mascara e canzoni anche più belle di altre operette. Il bollore sale.

“Una città di scienziati” è una raccolta di molte scene tratte da varie operette che mostrano la capacità dei goliardi senesi di prendere in giro il potere di turno in città.

Se non avete di meglio da fare (anche perché non c’è niente di meglio da fare) saremo in scena il 25 e 26 novembre prossimi. E non ci sarà solo Jackyill, ci saranno tanti personaggi delle operette dal 2000 a oggi, interpretate da dottori e studenti insieme. I biglietti rimasti per vedere le due rappresentazioni di “Una città di scienziati” sono pochi, quelli che ci sono li trovate dal Nannini tutti i giorni dalle 12.30 alle 13.30 e dalle 19.30 alle 20.30.

Noi ci si sta divertendo. Se volete, potete farlo anche voi.

PS: Le Ferie sono e rimarranno degli studenti. Dottori, culo! Compreso Jackyill.

In testata la locandina dell’Operetta è opera di Mido