Articoli

insonnia

L’insonnia secondo me

Amici e amiche, faccio outing: sono cintura nera di insonnia. Terzo dan!

Con un ‘esperienza ormai ultra ventennale, posso scrivere un trattato sul perché e come si genera l’insonnia. Quella degli altri non ne ho idea ma la mia credo di avere capito come e quando si manifesta. La mia insonnia è un riflesso condizionato che si attiva in presenza di condizioni in cui la coperta è troppo corta per mancanza di energie, di tempo, di denaro o di stimoli, di ordine.

L’insonnia per mancanza di energie: è quella che mi capita con maggiore frequenza. Più sono stanco e meno dormo. Il problema è che meno dormo e più sono stanco. Capita di arrivare a casa, cenare, accasciarsi sul divano e perdere la vita per un’ora e in quarto e poi, verso le 23.00, risvegliarsi con gli occhi a civetta e chiedersi: “E ora che cazzo faccio fino a domattina?”. Perché il sonno è come la Pasqua, quando arriva arriva (meglio se non stai guidando). Ma quando se ne va, non c’è Pasquetta. E’ andato. Fine. Se ne riparla domani dalle 21.45 alle 23.00. E durante la notte insonne, te che sei lungimirante, nel senso che prevedi che domani pomeriggio in riunione parlerai come Sloth dei Goonies tra gli applausi degli astanti, cerchi di portarti avanti con il lavoro del giorno dopo. E capita anche che vengano fuori delle ottime idee che, facendo entrare in circolo una spruzzata di adrenalina, ti levano le briciole di sonno che ti erano rimaste.

L’insonnia per mancanza di tempo: è quella che accade quando ti rendi conto che ti si sono accumulate trecento cose da fare di cui ti manca da fare il 4% per arrivare in fondo ma che ti generano un’ansia micidiale. Un piccolo trucco per superarla immediatamente è quella di farsi una bella lista di cose da fare. Di solito alla fine della lista ti addormenti per 3 quarti d’ora che, nell’economia generale della giornata sono come una ricarica telefonica da 2 euro (serve a poco ma meglio di niente).

L’insonnia per mancanza di denaro: quando si verifica, solitamente, non passa in un periodo breve. Si curerebbe con una bella vincita al lotto, non dico Superenalotto eh, l’insonne per mancanza di denaro ha aspettative basse, che di solito coincidono con le cartelle di Equitalia che ha fatto rateizzare al commercialista. Da questo tipo di insonnia sono esenti i menefreghisti e i cascatori in piedi. Per tutti gli altri non c’è nemmeno più Mastercard.

L’insonnia per mancanza di stimoli: la noia si nasconde letteralmente dentro la parola insonnia, fateci caso. Quando siete apatici, senza motivazioni, senza cose pianificate da portare in fondo, è proprio lì che perdete il sonno. L’avere tempo a disposizione, mentalmente vi tiene svegli per non perdere il tempo del sonno che sarebbe prezioso per pensare a come riempire il tempo della veglia. Il ragionamento è un po’ contorto ma se lo leggete con calma lo capite. Tanto avete tutta la notte per rimuginarci sopra.

L’insonnia per mancanza di organizzazione: è quella che succede perché non avete organizzato bene quello che avete da fare. Come tutti gli altri tipi di insonnia si cura cercando di mettere in fila le cose assumendo nel tempo la consapevolezza che c’è sempre qualcosa di prioritario e di secondario. E le cose secondarie a volte è bene lasciarsele dietro le spalle. Perché, anche se non dormi, la giornata sempre di 24 ore è. E di più non è possibile ottenere dal proprio tempo a disposizione

 

Qualunque sia la vostra insonnia abituatevi a gestirvela da soli e se vivete o volete bene a qualcuno che ne soffre non gli dite: “Devi dormire!”. Chiedetegli piuttosto: “Quale mancanza hai che posso aiutarti a colmare?”

 

PS. Sulla mia tomba scriveteci: “Risposa in pace. Almeno ora. Forse.”

L’immagine è tratta da una campagna pubblicitaria realizzata dall’agenzia brasiliana Carnaby per le palestre Corpus Academia Gym.

Torre del Mangia

Se crollasse la Torre del Mangia

Se una notte, prima di andare a dormire, noi che si abita in centro a Siena, si sentisse un boato e se, correndo a vedere quello che è accaduto, si scoprisse che è venuta giù d’un tratto la Torre del Mangia, i telefoni si paralizzerebbero. Ognuno chiamerebbe i propri cari come quando muore all’improvviso un parente. Si correrebbe tutti in pigiama alla Costarella per vedere se è vero, con le mani nei capelli. Lì si troverebbe sicuramente qualcuno che si conosce bene e qualcuno, che anche se si conosce poco, per quella sera diventerebbe uno con cui dialoghi perché devi condividere qualcosa che ti fa stare male. Ci sarebbe anche di sicuro qualcuno che sghignazza, perché lui l’aveva predetto che con quel capoccione di pietra prima o poi sarebbe venuta giù. Ci sarebbe chi piange e chi bestemmia, alcuni addirittura piangerebbero bestemmiando, altri starebbero zitti accoccolati al muro, altri ancora si abbraccerebbero singhiozzando. Si tornerebbe a letto all’alba aspettando il giorno dopo per vedere se viene giù anche il Facciatone, o San Domenico, non riuscendo a prendere sonno con gli occhi pieni di paura.
Poi il giorno dopo non crollerebbe nient’altro e la paura di tutti diventerebbero 55.000 voci diverse che vogliono dire a loro dividendosi in gruppetti.

Ci sarebbero i “colpevolisti”: quelli che devono capire a chi dare la colpa, perché se la Torre è crollata dovrà pur essere colpa di qualcuno. Tra questi si nasconderebbero abilmente i “cavalcatori di disgrazie” che punterebbero il dito su qualcuno per un tornaconto preciso e personale: “Secondo me la colpa è del custode che ha sbatacchiato la porta, lo conosco bene, è quello che tromba la mì moglie…”, oppure “è colpa del Comune, con tutti quei turisti appoggiati al Palazzo a bivaccare”, o ancora “è colpa di chi faceva le tre a bere in Piazza, con quelle fiatate d’alcol la Torre sbarellava!”.
Poi ci sarebbero gli “èandatacosisti”, quelli che, di fronte all’evidenza, si stringerebbero tra le spalle dicendo: “che ci vuoi fare, è andata così”, continuando a macinare la loro vita come il criceto dentro una ruota. Tristi, ma ormai è andata così.
Tra questi ci sarebbe una nicchia di “buonvisoacattivogiuochisti” che guarderebbero il Palazzo del Comune, ormai senza Torre e Cappella e direbbero, sottovoce, per non farsi sentire bene, “tutto sommato, così il Palazzo è più simmetrico”.

Ci sarebbero gli “sciacalli”, quelli che cercherebbero di lucrare sul dramma vendendo calcinacci e i “tordi”, quelli che comprerebbero un pezzo di mattone perché almeno si porterebbero un pezzetto di Torre del Mangia in Camera.
Ci sarebbero i “romantici”, quelli che in gruppo, meglio se dopo qualche gotto, si troverebbero nottetempo a guardare il vuoto dove prima svettava la Torre, cantando cori a quattro o cinque voci con le lacrime agli occhi.
Ci sarebbero i “guardoni” quelli che verrebbero a Siena per farsi un selfie con la Piazza mutilata.
Ci sarebbero tanti che starebbero a giornata a litigare per difendere la propria versione dei fatti.
Ci sarebbero quelli che si rimboccano le maniche per provare a ritirarla su, quella Torre, e quelli che criticano quelli che si rimboccano le maniche.
Ci sarebbe quello che ha capito esattamente come si sono svolti i fatti, ne è proprio certo, e che ce lo ripete ogni giorno dal suo blog.
Ci sarebbe qualcuno che è rimasto schiacciato sotto la Torre e che verrà ricordato soltanto il giorno dell’anniversario.

Poi ci sarei io, che sarei contemporaneamente: “colpevolista” e “èandatacosiista”, “romantico” e con le maniche rimboccate a non fare niente e a mettere mi piace il giorno dell’anniversario della tragedia. Ma con la stessa identica convinzione di ognuno degli altri, di essere quello che ama Siena più di tutti.

Old Bicycle

“Selfi” contro “Ribellini”: la Guerra Incivile

Alcune premesse doverose prima di questo ennesimo post su un bellissimo evento sportivo che si è appena svolto nella mia città:

  • Non sono un appassionato di ciclismo
  • Non ho più una bicicletta da quando me la rubarono nel 1994
  • Se faccio alcune decine di chilometri duro fatica anche se sono in taxi e non guido io.

Chiarito che non sono di parte, posso spiegarvi perché ho sentito il bisogno di scrivere anche io un  post su la Strade Bianche: non sono un fan della bicicletta ma sono un appassionato di social e di antropologia culturale. E, non ultimo, voglio anche io bene a Siena.

Ho aspettato che si quietassero i rimbombi di quella che è stata una vera e propria guerra civile (anzi, incivile), fatta di post, like, commenti e condivisioni. Una battaglia che ha fatto l’Arbia, ma anche la Diana, la Tressa e i Bottini, colorati in rosso.

Una guerra combattuta tra due eserciti, entrambi con la Balzana sugli scudi: da una parte i Selfi, dall’altra i Ribellini.

I Selfi sono quelli che si autoimmortalano durante l’evento per dire che ci sono stati anche loro (o su una bicicletta a durar fatica, o a sostenere i ciclisti correndogli a fianco, o perché membri dello staffe, oppure perché fermi in fila a lamentarsi di una strada chiusa per alcune decine di minuti). I Selfi si autocompiacciono della loro presenza sul posto, meglio se con la bocca a culo di gallina.

Dall’altra parte dello scherno troviamo i Ribellini. I Ribellini sono quelli che sono contro. Contro a chi dura fatica su una bicicletta, contro a quelli che sostengono i ciclisti correndogli accanto, contro a chi ha organizzato, contro a chi premia, contro a chi viene premiato, contro a chi dice che va tutto bene, contro a chi dice che va tutto male, contro a chi ha bloccato le strade, contro a chi si lamenta di chi ha bloccato le strade, contro le strade, specialmente quelle bianche. Sono contro e si ribellano, ma lo fanno soltanto battendo le mani nel muso alle loro tastiere, come se la loro opinione fosse quella che può farci cambiare opinione. L’argomento prediletto dai Ribellini sono le “file”. Lo sappiamo: tira più un pelo di fila che un carro di buoi.

Ho visto Selfi e Ribellini darsele di santa ragione, offendersi, minacciarsi, trattarsi a pesci in faccia, prendere posizione e non spostarsi da lì di un millimetro. Fin da quando ero piccino, quando vedo due che litigano, mi viene d’istinto entrare nel mezzo per strigarli. Su Facebook questo non è fattibile. Le risse a volte coinvolgono decine di persone che entrano a commentare e se ti inserisci, rischi di essere malmenato da male parole. Il Ribellino medio cerca il pretesto per attaccare, il Selfo lo cerca per autocelebrarsi. Entrambi vogliono portare sul loro carroccio un prezioso bottino di guerra: il famigerato “consenso sociale” che si manifesta oggigiorno con il numero di like che si ricevono. Un tempo il consenso sociale era l’essere persone rispettabili, oggi è pubblicare contenuti condivisibili.  Ogni evento è buono per aumentare le divisioni tra persone che vivono gli stessi problemi, le stesse strade, le stesse opportunità. Le differenti opinioni non contano e non si rispettano: oggi conta il posizionamento. Il valore è dato dalla manifesta indisponibilità a spostarsi dall’opinione che gli altri (non importa se quelli che ci amano o quelli che ci odiano) si sono fatti di noi. E’ prevedibile con esattezza, ciò che quel politico o il suo oppositore, diranno. E ci viene naturale schierarci, anche solo con un “mi garba”, da una parte o dall’altra. Io ancora non so se sono un Selfo o un Ribellino. Io le opinioni cerco di costruirmele lasciandomi la libertà anche di cambiarle. A me la guerra mi fa cacare, specialmente quella incivile che non vuole prigionieri. Specialmente se si combatte usando come terreno di scontro la mia città.

Dove sembra che nemmeno la pietra sia, oramai, più serena.

facebook

Il primo che ti commenta su Facebook

 

Scrivere su Facebook sta diventando demodé, ve ne siete accorti anche voi? Anche quelli che, come me, scrivevano e postavano ennemila volte al giorno si stanno rassegnando all’evidenza che Marchino lo Zucherberg non voleva vedere il nostro gatto; voleva venderci al migliore offerente. E noi ci siamo fatti vendere la vita senza guadagnarci un penny. Vabbè, ormai è andata.

Però ci siamo un po’ annoiati, specialmente da quando Marchino ci ha privato di quella spruzzata quotidiana di Autostima n°5, il pieno di “mi piace”, con la quale andavamo a letto felici, anche se nudi.

I like sono sempre meno, i soldi neanche a parlarne e anche le stagioni non sono più mezze con una volta. Ma questo potrebbe anche passare; quello che non possiamo più ingollare è il Signor “Il primo che ti commenta su Facebook”. Ognuno di noi ha il suo personale, che spesso è sempre il solito. Il caro Umberto Eco diceva che quando scriviamo lo facciamo per farci leggere da un “lettore  modello”, che però purtroppo, combacia raramente con il lettore reale. Scrivo un post che secondo me spacca e mi immagino già il like con commento di quella che avevo salutato ieri in piscina e invece arriva il commento inopportuno e fuori luogo di quello del negozio di scarpe. Che tra l‘altro, da lui le scarpe non ce le compro neanche. Oppure metto una foto di un viaggio e “Il primo che ti commenta su Facebook” è quello che mi fa notare che l’anno scorso ero 10 kg meno. O che lui c’era già stato e ha speso la metà. O che prosegue a dritto la polemica iniziata nel post precedente.

“Il primo che ti commenta su Facebook” va ignorato: un vostro mi piace al suo commento, dato più per educazione che per altro, può portarvi in dote altri 10 commenti inopportuni a post futuri. Non lo fate!

Perché il Signor “il primo che ti commenta su Facebook” non vi segue, vi pedina.

E, come spesso accade nella vita, non è mai quello che avevi desiderato ti pedinasse.

happy family child baby girl in arms of his father

“Think dirty”: la regola dei malpensanti

Sono giorni grigi là fuori, giornate in cui i malpensanti si fregano le mani, salvo poi fregarsi con le proprie mani. Mi è venuta in mente una campagna che credo sia molto appropriata a questo momento in cui molti dovrebbero tornare all’asilo. E ripartire da lì.

Alcuni anni fa Hustler, la rivista erotica fondata da Larry Flynt per fare concorrenza al più noto magazine Playboy con immagini e articoli ancora più espliciti, lanciò una campagna geniale che mi fece molto riflettere e che fece il giro del mondo della comunicazione pubblicitaria.

Una multisoggetto, praticamente priva di qualsiasi intervento di grafica, con foto (nemmeno tanto belle) che raffiguravano normalissime situazioni di vita che, se guardate con l’occhio malizioso di chi conosceva il brand Hustler, potevano essere lette come situazioni ad alto contenuto erotico, o addirittura perverso. Il piccolo quadratino giallo in un angolo, che conteneva il titolo della campagna, diceva: “Hustler. Vedi il nome e pensi sporco.”

Geniale! Effettivamente anche io, guardando il pastore che trascinava la capretta o la ragazza che apriva la porta al ragazzo delle pizze, mi ero fatto in testa un film che avrei potuto pubblicare su Youporn. Provate però a stampare quelle foto e fatele vedere a un bambino, o a vostra nonna che, magari non sa che grazie ad Hustler gli oculisti di tutto il mondo hanno fatto i miliardi. Vedrete che vi diranno che si tratta semplicemente di una ragazza che sta ricevendo la pizza che aveva ordinato o di un pastore che fa il suo mestiere. Perché spesso la perversione risiede nel nostro modo di guardare le cose. E spesso, chi critica qualcosa bollandolo come “deviato” o “perverso”, è proprio lui l’albergo della devianza e della perversione.

“Pensare sporco” genera pensieri spazzatura. Teniamolo bene a mente nella vita di ogni giorno. Specialmente quando si parla di bambini, che sono quanto di più lontano ci possa essere dalla malizia e dalla morbosità.

Amen.

Ps. Ecco qui sotto i vari soggetti della campagna di Hustler

 

hustler

hustler

hustler

hustler

hustler

L’immagine della testata è stata acquistata dall’archivio Getty Images.

piccioni

Il gusto di tirare la merda

Breve post rivolto a blogger locali dal giudizio più veloce del west e commentatori seriali compulsivi che rischiano di pestarla.

Aneddoto:

Una volta, mentre stavo viaggiando in treno verso Milano, mi capitó di incontrare un presidio dei Cobas del Latte. Al passaggio del treno iniziarono a sparare letame di vacca con gli idranti. Un bambino chiese alla mamma perchè ci piovesse addosso fango. Qualcuno fece notare al piccolo che quello non era esattamente fango. Una ragazza vomitò, per aggiungere una ciliegina su quella doccia non prevista e in omaggio con il biglietto di una corsa che faceva già segnare un pesante ritardo sull’orario di arrivo previsto. Molti dei passeggeri che viaggiavano con me, quando si erano messi a sedere su quel Frecciarossa erano dalla parte dei Cobas, qualcuno lo dichiarò pubblicamente (e anche io riconoscevo le loro buone ragioni) ma il fatto di essere stati ricoperti di sterco mentre stavamo viaggiando per lavoro, seppur dentro un treno con i finestrini chiusi, ci fece domandare che senso aveva tirare la merda a gente che non c’entrava niente con la loro sacrosanta protesta. Decidemmo che per protesta non avremmo bevuto piú latte. Io ho mantenuto la promessa per cinque anni. Nel frattempo mi sono dimenticato le  ragioni di quella protesta che ci concimò.

Morale:

anche se pensi di avere tutte le ragioni del mondo, tirare la merda senza guardare a chi la tiri, alla fine non conviene. Rischi di fare la fine del piccione e di finire in una tegamata. Perché il gusto di tirare la merda, alla fine ha sempre un gusto di merda.

omino col cappello

Teorema dell’ambulanza: l’importanza del sapersi mettere da parte.

Il terribile incontro di un’ambulanza con la sirena spiegata e il sempreverde Omìno col Cappello, sulla sua potente autovettura: una metafora dell’Italia.

Ci sono, nella vita di tutti i giorni, delle metafore che, nel momento in cui accadono, hanno il potere di farti riflettere. Ero in tangenziale che andavo alla svelta verso Dovemipare, amena località immersa nel verde tra Sarannocazzimiei e Fattiicazzituoi, quando ho sentito in lontananza una sirena che diventava sempre più forte e più vicina. Io e gli altri che erano sulla strada come me, abbiamo messo la freccia e abbiamo accostato per far passare l’ambulanza. Tutti, tranne un meraviglioso vecchietto stile Mr Magoo che, immagino a causa di una conclamata sordità, continuava a procedere a 60 km all’ora con la linea di mezzeria posizionata perfettamente al centro della propria Fiat Panda (quella fatta con l’accetta, per capirsi). Le braccia accorciate per avvicianare il petto al volante nella speranza che, accostando gli occhi al parabrezza, sarebbero tornate quelle diottrie ormai perdute con l’incedere dell’età.

L’ambulanza, non potendo clacsonare, vista la presenza della sirena già attiva, ha iniziato a sfarettare, ma l’imperterrito signore ha continuato a procedere in direzione ostinata e fortunatamente non contraria, fino a quando, sotto gli occhi di una fila di macchine ferme con la freccia lampeggiante, non sono sparite entrambe, la Panda e l’ambulanza, a 6o all’ora dietro la prima curva. Ho sentito la sirena allontanarsi lentamente e, mentre le macchine davanti a me rientravano sulla strada, mi sono chiesto quanto tempo ci sia voluto all’ambulanza per arrivare a destinazione.

Mi sono chiesto chi ci fosse sull’ambulanza: magari era un coetaneo di quell’omino, colpito da trombosi, che aveva già tirato il calzino, magari c’era una ragazza appena caduta di motorino, o una donna che stava per partorire, o un cittino arrotato sulle strisce. Ho sperato di no, che i volontari avessero soltanto fretta e avessero deciso, all’italiana, di accendere la sirena per scroccare un passaggio veloce in una tangenziale vuota. Perché poi succede sempre così, quando qualcosa ti disturba scegli sempre il male minore. Che non è mai la cosa giusta.

E’ qui che parte il ragionamento sulla metafora: per quanto si dica: “largo ai giovani”, “lasciamo spazio alle nuove generazioni”, “facciamo sistema”, ” facciamoci da parte”, basta che ci sia qualcuno che non intende mettersi di lato e lasciare il passo, e tutto è bloccato. Il teorema dell’ambulanza funziona solo se tutti capiamo che quando c’è qualcosa che merita di passare avanti ai nostri interessi, il vantaggio per tutti è quello di mettere la freccia e fermarsi. Perché un giorno su quell’ambulanza ci si potrebbe essere noi, con la nostra priorità.

Perché è vero che la strada è di tutti; ma basta un omìno col cappello (o senza) che si metta di traverso e tutto questo parlare di cambiamento, di futuro, di civiltà, si ferma come una fila di macchine sul ciglio della strada che non possono fare altro che offendere quell’omino di merda, in un post su Facebook. O pensare di votare il primo che ti dice che le Panda andrebbero rottamate. O, peggio, al movimento di quelli che vogliono abolire gli omìni col cappello.

PS. Secondo voi dove andava quel Signore? Secondo me era diretto a Matelovai, frazione di Tubbattessi. Sì, ma con calma, eh.

Estate inverno

Notizia shock: d’estate fa caldo, d’inverno fa freddo.

Non ho mai compreso, ma forse un giorno mi potrete illuminare, il motivo di questa moderna necessità di esternare cose lapalissianamente lapalissiane. La notizia del giorno è che oggi fa freddo, lo avevano detto gli esperti del meteo e anche il calendario poteva darci una mano a capirlo, dal momento che siamo al 7 di gennaio. Eppure vedo molti amici che postano su Facebook la notizia imprevista che fuori si agganghisce, con dovizia di foto del termometro dell’auto, selfie col berretto, il manicotto e i guanti.

Facebook ha tante facce, ma quella della pubblicazione dell’ovvietà ë tra quelle che, per antitesi, mi lascia maggiormente stupito. Il 5 agosto ci direte che fa caldo, vi dividerete in caldisti e diaccisti, litigherete su una veritá che tutti conoscono. Oppure a marzo commenterete la bomba d’acqua pronosticata da giorni con un: “Mira come viene!”.
Ci lascerete senza parole quando ci farete vedere che anche quest’anno, il 26 giugno c’è già la terra in Piazza, evento che, a sorpresa, si ripeterà verso il 10 agosto. Passare un altro anno imprevedibile sui social con voi sarà una scoperta dopo l’altra e quando accadrà una nevicata a luglio non sapremo più cosa dire per sorprenderci.

Ps. Non vorrei spoilerarvi ma pare che il 21 marzo, inizierà la primavera. Segnatevelo da qualche parte e ricordatecelo quel giorno.

senza offesa

“Senza offesa” è un’offesa

Stasera stavo tornando a casa e ho incontrato due giovani che somigliavano ai due hippie di “Un sacco bello”, tutti e due coi rasta colorati. Lei fa a lui: “Scusa ma, perché quella mi ha detto, senza offesa?” e lui a lei: “Mah? Saranno stati i capelli!”

Ho provato a immaginare il tipo di incontro che avevano appena fatto, magari con una donnetta di ennemila anni dentro ad un fruttivendolo, o con una donnina con cane piccolo e cappello. E mi sono messo a ridere pensando che effettivamente, “senza offesa” è un’offesa. Senza dubbio.

Ho cercato di ricordarmi di tutte le volte che mi è capitato di sentirlo e proprio mai era per fare un complimento. Sì, ma senza offesa però.

Tipo quando ero in profumeria e alla nauseabonda studentessa in fila davanti a me che aveva appena comprato dei detersivi, la commessa mise nella borsa dei campioncini di profumo: “Senza offesa!”

Oppure quando al ristorante, il cameriere, guardandomi, mi mise sul tavolo un pezzo di dolce avanzato al compleanno accanto: “Lo mangi te, vero? Senza offesa!”

O quando alla giovane vedova che aveva noleggiato un tristissimo film d’amore, il ragazzo del Blockbuster regalò i pop corn: “se le fa piacere, senza offesa!”

Oppure di quella volta che l’allenatore mi spostò dall’attacco alla difesa, tanto io goal non lo facevo: “senza offesa, eh!”

O ogni volta che a un omino che sta ritto coi fili, qualcuno in tram dice: “Si metta a sedere qui, senza offesa!”

O anche quando all’amica che aveva rotto a metà il tappo di una bottiglia di Brunello, strappai di mano il cavatappi e dissi: “Faccio io… Senza offesa!”

O quando ero in gita a vedere i cunicoli della Napoli sotterranea e il buontempone che faceva da guida mi disse: “Guagliò è stretto! E’ meglio se ti metti ultimo, senza offesa!”

E io gli risposi: “Tu stiantassi! Senza offesa!”