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“Siamo tutti di Siena”

“Siamo tutti di Siena” è un tormentone che ti accompagna per tutta la vita, se ti capita di nascere in quella piccola città che in tanti, da tutto il mondo, desiderano visitare. Fosse anche solo per il tempo di un cono medio.

“Siamo tutti di Siena!” mi diceva il mio nonno quando mi portava per mano dentro Piazza a guardare le batterie la mattina della Tratta. Per cui ognuno ha la sua bandiera e i suoi colori ma, quando c’è da stare uniti, i colori sono solo il bianco e il nero. Perché siamo tutti di Siena.

“Dai, siamo tutti di Siena” me lo disse anche quel bordello di un’altra Contrada che avevo trovato per caso in vacanza e che a Siena appena mi salutava, quando gli prestai una fiche al Casinò di Saint Vincent.

“Grandi! Siamo tutti di Siena, perdio!”, ho pensato dal mio comodo divano quando alcuni miei amici sono andati a cucinare d’inverno per i terremotati.

“Cheddì, lo saprò? Siamo tutti di Siena” ci disse l’infermiera del pronto soccorso alla quarta flebo del mio migliore amico in coma etilico.

“Votami, siamo tutti di Siena!” mi disse quel candidato consigliere comunale che mi pregava di cercagli una ventina di voti.

“Votami, siamo tutti di Siena!” mi confermò anche l’altro consigliere comunale che stava dalla parte opposta.

“Siamo tutti di Siena…” provava a dire il venditore di rose del Bangladesh quando capiva che avevi già bevuto un po’ e ti metteva una rosa gialla in mano sapendo che non l’avresti fatta cadere per terra.

“Siamo tutti di Siena” gridano dei novelli Barbicone, pronti a defenestrare i potenti che hanno votato democraticamente. Con la stessa coerenza dello schizofrenico protagonista di Shining.

“Siamo tutti di Siena” leggo oggi su Facebook da gente che si scanna su qualsiasi argomento come se ci fossero ancora Provenzan Salvani e Farinata degli Uberti. Perché è vero, siamo tutti di Siena, però…ho ragione io!

Lo penso anch’io che siamo tutti di Siena. E come tutti quelli di Siena, ognuno di noi ha un grosso difetto: credere di essere di Siena più di tutti gli altri; di essere in cima al “sienometro”. Anche se poi dichiara che, ci mancherebbe, “siamo tutti di Siena”.

 

L’immagine di testata è un fotogramma della web serie di AOL “Making a scene” con James Franco nella sua citazione di Shining di Stanley Kubrick.

susine

E i morti saran sùcine…

Con l’avvicinarsi della Festa Titolare e  del Giro della mia Contrada, rispolvero questo pezzo evergreen su come si “dovrebbe” cantare il Maria Mater Gratiae.

Lungi da me volere scadere nell’irriverente. Quando si parla di cose di Chiesa bisogna sempre andarci con i piedi di piombo. Non vorrei fare la fine di Papa Luciani o, peggio, incorrere negli anatemi lanciati da Don Flavio. Però, lasciatemelo dire, il modo in cui cantiamo il Maria Mater Gratiae durante il giro, è a dir poco esilarante. Non per il fatto che il testo latino viene ciancicato in maniera atroce, quanto perché il significato che ne deriva è completamente diverso da quello originario.
Volete un esempio? Ecco, frase per frase come dovrebbe essere e come in realtà viene cantato il Maria Mater Gratiae:

Vero: “Maria Mater Gratiae. Mater Misericordiae, tu, nos ab hoste protege”
Falso: ” Maria Mater Gratiae. Mater Misericordiae, tu nostra madre protege”

I ringraziamenti rimangono gli stessi ma chi è che deve essere protetto? Il testo originale dice “ab hoste” che non vuol dire proteggici dall’oste che ci fa mangiare male e spendere tanto, ma proteggici dal nemico. Ecco, il popolo di tamburini e alfieri che, nelle chiese delle consorelle rende omaggio, pare che non tema i nemici ma chiede, in un modo un po’ infantile: “mamma proteggici!”
E questo è niente, state a sentire il secondo verso:

Vero: “Et mortis hora suscipe”
Falso: “E i morti saran sucine”

Che? I morti saranno sucine? Se non sbaglio nelle campagne senesi le sùcine sono quelle susine che, se mangiate in grande quantità provocano spiacevoli disturbi gastroenterici. Se i morti saranno susine i vivi sono forse albicocche? E i moribondi…pesche noci!? Roba da matti, perché poi i morti dovrebbero essere susine? Forse il Maria Mater Gratiae è un canto buddista dove tutto ha una grande anima e allora mi viene il dubbio che tutte le volte che mangio la marmellata ho appena spalmato nel pane un paio di cadaveri.
Andiamo avanti:

Vero: “Jesu tibi sit gloria. Qui natus es de virgine cum Patre et Almo Spiritu”
Falso: “Iesus Cristi gloria. Chi in altus è ‘sta virgine? Cum Padreterno Spiritu.”

Qui ci si chiede (che il Padre Eterno ci perdoni!), quante vergini sono rimaste. a risposta è retorica, come la domanda.
Se è vero che il latino è una lingua morta, questo è un oltraggio al suo cadavere. Chissà se prima o poi impareremo. Nel frattempo, aspettando di ascoltare gli strafalcioni dei monturati, mi concedo una susina, pace all’anima sua. Il Giro è maturo.

W l’Aquila in sempiterna saecula. Amen.

 

Nella foto una marmellata di susine, o sùcine (per dirlo alla campagnola).

zombie

L’amore (non corrisposto) e il bene (rifugio)

Tutti noi siamo stati innamorati, abbiamo imparato da piccoli. E fin da piccoli abbiamo imparato che l’amore più doloroso ma anche più persistente è quello non corrisposto. Per quelli come me, che nel ’92 avevano 17 anni, quel Palio vinto alla grandissima, fu un fugace amplesso che ci ha lasciati orfani di quella bella donna che ci aveva portati a letto per una sola volta. Una con la quale, da inesperto fai cose pazzesche e irripetibili. Una che ti fa credere che sarà così ogni volta che vuoi e che poi ti lascia senza neanche salutare e per oltre vent’anni ti fa restare lì ad aspettarla a bocca asciutta. Da lì le nostre vite sono state sempre segnate.
Segnate da quel sogno e dal sogno di riviverlo. E hai voglia a provare a raccontarlo a chi ha cinque o venti anni meno di te. Noi siamo stati gli ultimi a salire in quella alcova e anche quelli che hanno vissuto la malinconia di quella mancanza forse più di tutti.
Di un amore non corrisposto si vanno a rileggere i messaggi, i biglietti scritti sottobanco, le vecchie lettere ciancicate. E così a volte capita di andare a riaprire il numero unico, gli articoli di giornale, a ricercare volantini e magliette ormai non più indossabili.
E nonostante tutta questa grande malinconia, la Contrada resta sempre la più bella casa in cui rifugiarsi quando le nostre umane disgrazie ci rimettono i fila i valori a cui dare importanza. Ognuno di noi ha la propria coperta di Linus. Per alcuni sono le scarpe da calcio, per altri l’amante, per qualcuno la casa di mamma. Per me il “bene rifugio” è il portone di Società, la Sala delle Assemblee, il Chiassino, anche quando puzza di piscio.
Crescendo si impara a leggere le persone, soprattutto gli amici, e sempre più spesso ci si accorge come ad ognuno di noi la vita abbia dato e tolto. Qualcuno non c’è più, con un vuoto assordante; altri hanno dovuto superare ostacoli che sembravano montagne; altri continuano a ridere imperturbabili, chissà se capiranno mai. Ognuno di noi ha le sue rughe, anche quelli a cui un tempo potevi dare qualche vile scapaccione. Da bambini mettono soggezione, da grandi si impara a capirle perché le stesse rughe ce le hai anche te. E’ per questo che, come gli zombie di “The walking dead”, si torna tutti lì, anche senza essersi dati l’appuntamento.
Ogni anno che passa, nonostante sembra di perdere la carne a brandelli, il “bene rifugio” torna ad essere la coperta più rassicurante. Nonostante tutti quegli inutili giri primi che, nell’allegoria dell’amore non corrisposto, valgono come una risata di scherno presa in faccia da chi ami da morire da tutta la vita. E che non puoi fare a meno di continuare ad amare.

Io continuo ad andare avanti. Per fermarmi dovete spararmi in testa. Come a uno zombie.

L’illustrazione è di Benedetto Cristofani

montura

Pensieri di una montura

Sono una montura. Una vecchia montura sudata. Mi hanno indossata, cincischiata, stropicciata. Sono dall’Aquila da più di quarant’anni e ne ho viste di tutti i colori, anche se io resterò per sempre gialla, con qualche bordatura di celeste per ricordarmi di sorridere e un tocco di nero per non dimenticarmi che la vita di una montura è fatta per vestire parallelamente gioie e dolori. Ho visto matrimoni, comunioni e funerali. Ho visto andarsene grandi contradaioli. Alcuni di loro mi avevano anche indossato; se faccio attenzione riesco ancora a sentire il loro odore sommato all’odore di tutti quelli a cui sono stata addosso. Perché una montura non ha bisogno di essere lavata, va lasciata prendere aria; l’aria delle stanze della nostra Contrada. Se venissi lavata il damasco diventerebbe opaco, la trama dei velluti perderebbe il verso, i polsini e il colletto si ingiallirebbero mentre devono restare candidi come il sentimento di chi, fin da bambino si allena per entrare dentro di me. Sono una taglia forte, anche se ultimamente mi hanno un pochino riaggiustato e ristretto. Non si sa mai quale sia la taglia giusta, dopo tutto. Mi è capitato di girare, e porto ancora il segno della cintola da tamburino. Mi hanno adoprato per entrare in Piazza e per andare a prendere il cavallo. Era un Palio di agosto e, sebbene fosse piovuto la mattina, era molto caldo e i cavalli li dettero poco prima di cena. Il cavallo che ci toccò non era quello che si sperava e il ragazzo dentro di me si asciugava le lacrime al mio velluto. Dal naso colava un po’ di moccolo e anche dalla bocca usciva qualche moccolo.
La vita di una montura è strana. Ascolti da parte di chi ti porta bestemmie e preghiere, offese e parole di incitamento; sei costretta a sentirti perennemente inadeguata al tuo ruolo. Sei fatta di tessuto pesante eppure ti tirano fuori soprattutto d’estate, sei disegnata su modelli del quattrocento eppure ti senti sempre al passo coi tempi, sei stretta, puzzolente e incartapecorita ma chi ti porta si sente un Dio.
Non lo saprei dire quale sia la ragione ma se ci penso, credo che solo chi si è messo una montura possa capire cosa significhi mettersi una montura.
Sogno il momento in cui apriranno l’armadio nel quale mi trovo e qualcuno mi vestirà dicendo che quel giorno si gira a vittoria dalla mattina alla sera. Spero che questo avvenga presto, prima che arrivino le monture nuove, perché quelle come me sono ormai da buttare. Una cosa, però, mi rincuora: pare che una montura, solo per il fatto di esserci stata, acquisti di diritto un posto nella storia della sua Contrada. Una montura non si butta mai via, perché non passa mai di moda. Almeno cosí mi hanno detto le monture più vecchie di me. Quelle che si lasciano ammirare dalle teche del museo e che tutti osservano con ammirazione e alle quali un giorno, spero molto in là, andrò a fare compagnia.

Scritto per Il Lampione di Costalarga, giornalino della Nobile Contrada dell’Aquila

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Dei Chiccheri e dei Gazzillori

Ogni Contrada li chiama a modo suo ma ognuna deve farci i conti: sono i Chiccheri e i Gazzillori.

Il Chicchero è il Jolly che ti esce dal mazzo all’improvviso, perlopiú nei giorni del Palio. Qualcuno si palesa prima, alcuni esattamente il giorno della Corsa. Come i jolly delle carte, ci sono Chiccheri buoni e Chiccheri cattivi. Quelli che se li peschi magari hai 40 per buttare giú le carte e quelli che se ti rimangono in mano ti tocca anche pagare 16. I primi sono quelli che capiscono di essere Chiccheri e si mettono a disposizione anche piú dei Supercontradaioloni (di loro parleró un’altra volta). Un Chicchero buono è per sempre, come un diamante. Quelli cattivi invece, ignari della propria condizione di Chiccheraggine, ma comunque parzialmente consapevoli di essere arrivati con l’ultima intasatura dei tombini, scelgono ammennicoli o gadget che dimostrino in maniera conclamata che ci sono anche loro. Per cui fanno incetta di magliette, cappellini, hanno il fazzoletto ultimo modello, hanno l’anello al dito e a volte l’orecchino al naso. L’unico modo per combattere i Chiccheri è “la rospata”. Dicesi rospata, la repentina modifica del tono della tua voce con la quale fai presente al Chicchero che quello che stava facendo non corrisponde ai canoni contradaioli per come te li hanno insegnati da piccino. La rospata aumenta la propria efficacia se accompagnata da moccolo e/o da manata rumorosa sul bancone del bar sul quale il suddetto ha appena rigettato la cena.

Vi sono poi i Gazzillori. Il gazzilloro è un coleottero dal colore verdognolo che ti ritrovi nella case di campagna quando la temperatura esterna è minore di quella interna. Per cui te lo puoi trovare in casa in ogni mese dell’anno. E il problema è che sono animali mimetici. Sono quelli che partono all’attacco senza alcuna forma di rispetto nei tuoi confronti. Quelli che ti criticano se una cena costa sette euro invece di cinque, quelli che se dici di trovarti in un punto dopo la prova si fermano a vedere due contrade che se le danno, quelli che ti spiegano cosa stava pensando il mossiere durante la mossa non valida, quelli che si lanciano in una cazzottata non loro solo perchè “mi trovavo lí”, quelli che se gli fai notare una cosa ti dicono: “Stai zitto, Puro!”. Il Gazzilloro è un mutaforma. Potrebbe essere anche uno dei tuoi migliori amici che a un certo punto impazzisce e fa “la Gazzillorata”. Per difendersi dalle gazzillorate non esiste la rospata. Il contradaidolo che assume la forma di gazzilloro, nel momento della gazzillorata è inconsapevole, va risvegliato. Spesso basta un “Ohhhh!”, detto a crescere fino a che il colore della tua faccia non assume il colore di un San Marzano con strabuzzamento degli occhi e rigonfiamento delle vene del collo. Se la cosa non riesce, non si tratta di “Semplice Gazzillorata commessa da contradaiolo”, la cui terapia è “parte a culo con scuse e successiva bevuta”, in quel caso si tratta proprio di Gazzilloro che, essendo una bachera di campagna, va preso a scarpate.