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2018: Fuga dai Social Network

Alcune ere geologiche fa, ebbi modo di parlare con un vecchio direttore creativo della Milano da Bere. Con una voce catarrosa mi disse una verità che presi come oro colato e che, con le dovute eccezioni, ho fatto mia fino all’avvento di Facebook: “quando parli con un cliente, tieniti alla larga da questi tre argomenti: la politica, la religione, il calcio. Rischi di pestare una merda ogni volta che apri bocca.”

Aveva ragione.

Il problema è che, sui social, i tre argomenti di cui tutti parlano ogni giorno sono la politica, la religione e il calcio. Forse è per questo che Facebook & Co sono diventati luoghi dove si litiga più che discutere, perché nessuno ha la minima voglia di spostarsi dalle proprie convinzioni, nessuno ha voglia di cambiare opinione. Così le nostre bacheche sono diventate un campo minato di cacche pestate su cui, ogni due per tre, qualcuno si fa esplodere.

Tra i buoni propositi del 2018 vorrei scappare da questa maledetta arena dove siamo tutti gladiatori senza averne il fisico.

Il 2018 sarà un anno in cui la politica sarà una quotidiana “partita a scracchi” (nel senso di gente che si sputa in faccia veleno ogni santo giorno). A livello nazionale e a livello locale, vorrei evitare di beccarmi uno sputazzo vagante in un occhio. Per cui, ci si vede a votare il giorno delle elezioni.

Il 2018 sarà anche l’anno in cui la religione sarà usata contro chi ci crede e anche contro a chi non ci crede.La tentazione di infilarsi in qualche polemica sarebbe forte ma figuratevi se mi voglio mettere a pensare a chi può avere ragione tra Papa Francesco e Socci. Libera nos a maloox.

Il 2018 sarà anche l’anno in cui la Nazionale non andrà ai Mondiali. Non mi vorrei trovare a difendere dei giocatori superpagati che, in un gioco dove si può vincere o perdere, hanno perso. Sarei sicuramente dalla parte dei perdenti ma, con il conto corrente in rosso, mi scoccerebbe schierarmi con l’oro.

La scelta migliore sarebbe quella di evadere, di ricominciare a fare, nelle pause, le parole crociate senza schema; sulla tazza del bagno leggere un capitolo di un romanzo, guardare un film sul divano senza sbirciare cosa hanno detto i miei amici social. Invece avrò sempre in mano il telefonino, che dovrò controllare come un figliolo che gattona.

Come tutti i buoni propositi so bene che non ce la farò. Che litigherò con un candidato Sindaco, che imbastirò una crociata contro i cattofanatici che mescoleranno Isis, immigrazione e religione, che mi beccherò l’anatema di chi voleva vedere correre Immobile.

Aveva ragione quel vecchio direttore creativo, sarebbe meglio non toccare questi tre argomenti. Ma la Milano da Bere è morta e sepolta, sotto uno scroscio di “mi piace”. E un po’ mi dispiace.

10 idee per 10 nuovissime start-up

Oggi è una bella giornata e voglio regalare 10 idee ad altrettanti volenterosi startupper:

1) “RUNtolo” (app stile Fitbit per corridori tabagisti e/o sovrappeso)
2) “Meglio soli che scompagnati” (e-commerce che vende i calzini uno ad uno. Così non si perdono. E se si perdono, pazienza. Ideale per persone con una gamba sola.)
3) “LIPOcrita” (pagina facebook tipo “Tasty” con video di cibi grassissimi dove si dice che mangiarne a volontà fa bene.)
4) “Breaking Bed” (Letto fragile per coppie poco focose che vogliono fare bella figura con i vicini di casa)
5) “The walking Dad” (tour del Cammino di Santiago di Compostela per padri che hanno figli che sembrano dei morti che camminano)
6) “Da Nico & Tina” (Ristorante che se ne frega della Legge Sirchia)
7) “SI e NO” (concessionario di auto usate che vende solo veicoli immatricolati a Siena e Novara)
8) “C’è post per te” (servizi di scrittura automatica di post per blogger che hanno poco da dire)
9) “La breve storia di Preservati Ivo” (Storytelling su un tale che prediligeva il sesso sicuro.)
10) “The House of Karl” (sit com stile Casa Vianello con protagonisti Marx e la moglie che alla fine dice sempre “Che barba, che noia”)

E che non si dica che in Italia mancano le idee!

Profiles with Christian and Islamic symbols

Per l’amor di Dio

Dialogo a senso unico tra religioni. Perché non c’è peggior sordo di chi non ascolta.

“Per l’amor di Dio, perché mi hai fatto questo?”
“Per…l’Amor di Dio!”
“Il tuo o il mio?”
“Il mio!”
“Hai detto ‘il mio’? Allora è il mio!”
“No, non ho detto ‘il tuo’; ho detto ‘il mio’!”
“Dio mio….”
“Mio Dio…”
“Mi odio?”
“Ti odio”
“No, per l’amor di Dio…”
“O Dio?…”
“Oddio…”
“Odio.”
“Oddio…”
“Addio…”

facebook

Il primo che ti commenta su Facebook

 

Scrivere su Facebook sta diventando demodé, ve ne siete accorti anche voi? Anche quelli che, come me, scrivevano e postavano ennemila volte al giorno si stanno rassegnando all’evidenza che Marchino lo Zucherberg non voleva vedere il nostro gatto; voleva venderci al migliore offerente. E noi ci siamo fatti vendere la vita senza guadagnarci un penny. Vabbè, ormai è andata.

Però ci siamo un po’ annoiati, specialmente da quando Marchino ci ha privato di quella spruzzata quotidiana di Autostima n°5, il pieno di “mi piace”, con la quale andavamo a letto felici, anche se nudi.

I like sono sempre meno, i soldi neanche a parlarne e anche le stagioni non sono più mezze con una volta. Ma questo potrebbe anche passare; quello che non possiamo più ingollare è il Signor “Il primo che ti commenta su Facebook”. Ognuno di noi ha il suo personale, che spesso è sempre il solito. Il caro Umberto Eco diceva che quando scriviamo lo facciamo per farci leggere da un “lettore  modello”, che però purtroppo, combacia raramente con il lettore reale. Scrivo un post che secondo me spacca e mi immagino già il like con commento di quella che avevo salutato ieri in piscina e invece arriva il commento inopportuno e fuori luogo di quello del negozio di scarpe. Che tra l‘altro, da lui le scarpe non ce le compro neanche. Oppure metto una foto di un viaggio e “Il primo che ti commenta su Facebook” è quello che mi fa notare che l’anno scorso ero 10 kg meno. O che lui c’era già stato e ha speso la metà. O che prosegue a dritto la polemica iniziata nel post precedente.

“Il primo che ti commenta su Facebook” va ignorato: un vostro mi piace al suo commento, dato più per educazione che per altro, può portarvi in dote altri 10 commenti inopportuni a post futuri. Non lo fate!

Perché il Signor “il primo che ti commenta su Facebook” non vi segue, vi pedina.

E, come spesso accade nella vita, non è mai quello che avevi desiderato ti pedinasse.

Estate inverno

Notizia shock: d’estate fa caldo, d’inverno fa freddo.

Non ho mai compreso, ma forse un giorno mi potrete illuminare, il motivo di questa moderna necessità di esternare cose lapalissianamente lapalissiane. La notizia del giorno è che oggi fa freddo, lo avevano detto gli esperti del meteo e anche il calendario poteva darci una mano a capirlo, dal momento che siamo al 7 di gennaio. Eppure vedo molti amici che postano su Facebook la notizia imprevista che fuori si agganghisce, con dovizia di foto del termometro dell’auto, selfie col berretto, il manicotto e i guanti.

Facebook ha tante facce, ma quella della pubblicazione dell’ovvietà ë tra quelle che, per antitesi, mi lascia maggiormente stupito. Il 5 agosto ci direte che fa caldo, vi dividerete in caldisti e diaccisti, litigherete su una veritá che tutti conoscono. Oppure a marzo commenterete la bomba d’acqua pronosticata da giorni con un: “Mira come viene!”.
Ci lascerete senza parole quando ci farete vedere che anche quest’anno, il 26 giugno c’è già la terra in Piazza, evento che, a sorpresa, si ripeterà verso il 10 agosto. Passare un altro anno imprevedibile sui social con voi sarà una scoperta dopo l’altra e quando accadrà una nevicata a luglio non sapremo più cosa dire per sorprenderci.

Ps. Non vorrei spoilerarvi ma pare che il 21 marzo, inizierà la primavera. Segnatevelo da qualche parte e ricordatecelo quel giorno.

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L’Opinione e la Sentenza: in morte di Secondomé

In questo triste 2016 si è consumata una tragedia di cui nessun giornale parla: è venuto a mancare prematuramente Secondomé. E’ stata una morte improvvisa e violenta; si trovava sullo stesso pulmino di Pensoché, Credoché, Ammioavviso, Suppongoché. Sono finiti in un burrone e non c’è stato niente da fare. Se ne sono andati in silenzio nell’indifferenza di tutti. Si è salvato miracolosamente solo Massietesicuriché ma le sue condizioni sembrano disperate.
L’ultima volta che ho visto Secondomé era tra i commenti ad un’instagrammata di Belen. Poi la tragedia. Senza di loro se ne va l’opinione e resta la Sentenza, che tutti possono usare senza accettare repliche. La verità è diventata una. A testa. Ognuno ha la propria e non accetta che altri possano proporre una verità alternativa. Pare che sul pulmino ci fosse anche il berlusconiano Miconsenta. Con lui se ne va l’ultimo barlume di buona educazione di chi, prima di dire una cazzata, almeno chiedeva il permesso. Facebook è un enorme tavolino sul quale ognuno di noi sbatte il pugno. Il fatto è che lo facciamo tutti, tutti insieme, tutti i giorni. Sentenza ci guarda con gli occhi di ghiaccio e ci sbatacchia una verità assoluta in faccia per quel lunghissimo istante che leggiamo il suo post. E’ una certezza che non ammette repliche. E’ il tentativo di prendersi di forza una ragione che nessuno, nel mondo là fuori è disposto a darti così facilmente. E’ solo una dichiarazione di debolezza. Secondo me.

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Quando giocavamo a nastro

Sono nato a metà degli anni ’70, giusto in tempo per ricevere per il sesto compleanno quel videogioco con due strisce che si rispediscono un quadrato che mi sembravano due tennisti disegnati da un pittore iperrealista. Due anni dopo arrivò il Vic 20, dopo altri due anni il Commodore 64. Non ho ancora capito perché i regali grossi arrivavano solo per i compleanni pari, forse i miei genitori erano rimasti attaccati all’austerity e alle targhe alterne. Boh?

Se Pokemon Go è l’omega, il Vic 20 e il Commodore 64 erano l’alfa. Due mondi separati da anni luce di distanza. Erano l’opposto del “mobile”. Solo il joystick, fallico amico di interminabili pomeriggi, era grosso e pesante come un portaombrelloni. E per giocare una partita dovevi infilare la cassetta. No, non c’era un log in da fare; c’era una cassetta. Simile a quelle che si infilavano nel mangianastri per sentire Bimbo Mix, Cristina D’Avena e Furia Cavallo del West. Se tutto andava bene dovevi aspettate una trentina di minuti prima di poter giocare. L’unica cosa vagamente somigliante ad una barra di scorrimento era un contatore numerico che girava con la stessa velocità di una giornata con la febbre a 37,2 senza televisione. E poi c’erano gli intoppi. Una volta su tre la cassetta o si inceppava, e allora dovevi ripartire da capo, o veniva risucchiata come uno spaghetto nella bocca del mangianastri. Noi sappiamo bene perché il mangianastri si chiama così.

E quei benedetti intoppi erano degli enormi incentivi ad uscire in una Siena che era ancora un meraviglioso campo da gioco e dove tutti i tuoi amici erano a portata di campanello. Le noie del Commodore mi sono costate molti strati di pelle di ginocchio, regalati agli spazzini del giorno dopo. Ma ora conosco più o meno tutti i senesi della mia età: i bulletti, gli sfigati, i miti assoluti, quelli che sapevano giocare a pallone, quelli che c’avevano sempre i doppioni, quelli che c’avevano la mamma bona, quelli che sputavano nel proprio panino per evitare il “morsino”.

Nell’era del videogioco “immobile”, Nascondino era più affascinante di Arkanoid e Buchetta ci rendeva più ricchi di Farmville. Di quel periodo ho tanti ricordi e pochi rimpianti, perché alla fine un bambino maschio nato a metà degli anni settanta era sempre goffo, mal vestito, mal pettinato e maleodorante. L’unico rimpianto che ho è quello di non aver mai restituito la cassetta con il gioco dove un guerriero coi baffi correva per ammazzare gli zombie. Me l’aveva prestata il mio amico Marco, della Pantera. Eravamo compagni di classe e, anche se una volta mi rubó la fidanzata, ci volevamo bene.  Lui internet non ce l’ha fatta a vederlo e di questo ho un grosso rimpianto.

Ora nessun dodicenne resterebbe trenta minuti ad aspettare di giocare ad un giochino con i pixel grossi come noci. Non starebbe ad osservare quel numerino che scorre lento. Oggi escono e restano chiusi dentro il loro telefonino e nessuno ha più i ginocchi sbucciati.

Parafrasando il Papa Buono: “Domani fate uno scherzo al vostro bambino. Mettetegli l’attak sotto il cellulare e appiccicatelo al comodino. E poi ditegli: esci a testa alta, questo è lo scherzo del Taglia”.

L’immagine è una schermata del gioco Ghost n’ Goblin per Commodore 64.

parlare

L’Urgenza del Parlare (a vanvera)

Siamo tutti ammalati. La malattia ce l’ha attaccata un ragazzo di nome Marco. Marco Zuckerberg. Ci ha messo in mano un megafono e ci è esploso come un giocattolo bomba. E tutti noi, con le mani a brandelli e con la faccia bruciacchiata non ce la facciamo, dobbiamo parlare. Dobbiamo postare. In sette o otto anni abbiamo sfanculato quelle cose che le nostre nonne ci avevano insegnato sventolandoci per un orecchio: la moderazione, la mediazione, la buona creanza, la buona educazione, il buon gusto. Tutta colpa di Marchino e del suo megafono esplosivo. La nonna ci aveva insegnato faticosamente a contare fino a dieci prima di parlare e Marco ci ha messo il tasto “Pubblica” che lampeggia quando arrivi a contare il due.

Erano risusciti a farci capire che non si parla prima che il nostro interlocutore abbia finito e ci hanno tirato fuori WhatsApp dove si conversa in gruppo ma ognuno segue il suo filo.

Cosicché un amico dice: “Avete saputo di Marta?” mentre un altro propone: “Pizzino stasera?” e un altro ancora esordisce con: “Quanto costa il Cinema in Fortezza?”. In questo modo viene fuori che Marta la chiamavano Jeeg Robot e il cinema costa come una pizza quattro stagioni più birra artigianale, la quale birra, tuttavia, è incinta di Sergio, uno dei fratelli Vanzina.

Il social ci sta dando armi per diventare isole che ascoltano solo se stesse. Che c’entra, siamo tutti iperinformati in tempo reale di quello che accade dall’altra parte del mondo e perfino nella casa accanto. Anche se conosciamo per filo e per segno l’altra parte del mondo (l’abbiamo vista su Instagram) e non ci salutiamo col vicino di pianerottolo. La gente parla con quei tre o quattrocento amici al giorno che per non fare sentire soli, chiami anche la notte alle tre, quando sarebbe giusto essere mandati a quel paese da chi ti fa vibrare il cellulare mentre sei in piena fase rem. O magari, quando finalmente, dopo tanto penare l’avevi chiesta e ottenuta.

Ma la cosa più atroce è l’urgenza del parlare. Ci avevano abituati ad aprire bocca solo se avevamo qualcosa di intelligente da dire. Ma niente, è saltato per aria anche questo. Dobbiamo dire per forza qualcosa, basta sia, altrimenti abbiamo paura che la prossima volta che ci guarderemo allo specchio non ci troveremo niente. E nel parlare per forza, per forza spesso si parla a vanvera, tanto per dire.

C’è chi commenta tutto. E chi critica tutto. C’è chi si lamenta di tutto e chi mette mi piace a tutto. Tutto. O niente. Meglio tutto. Meglio di niente.

Ognuno si sente contemporaneamente edotto ed autorizzato a dire la sua verità che, provenendo dal tamburellare sulla tastiera da parte di un luminare, è certamente e incontrovertibilmente, una verità assoluta.

Io ad esempio quando ho iniziato a scrivere questo post avevo qualcosa di intelligente da dire, ve lo giuro, ma l’ho dimenticata. Nel frattempo però ho fatto tre altri post del blog, quattro post su facebook e sei su Instagram. Su Twitter no, Twitter è morto. O è malato grave. Meglio Snapchat. Però poi dopo poco quello che dici scompare. Che forse non è mica un male. Forse. Boh? Condividi? Dai, condividi. Anche se non condividi, condividimelo, ti prego, fallo per me…

Vabbè dai, ora mi zitto. Per qualche ora. Anzi, no, mi è venuta una cosa ganzissima da dire. Ci vediamo su Facebook. Un post solo e poi smetto. Ma questo lo posto. Sì sì, questo lo posto. Alla zitta.

 

L’immagine è opera dell’illustratore Eiko Ojala. Potete trovare altri suoi capolavori qui: https://www.behance.net/eiko o qui: http://ploom.tv

dead

Morire: prima di Facebook era “riposare in pace”

Se ti succedeva di morire ed eri sconosciuto ti piangevano i parenti;
se eri famosissimo c’era un servizio al telegiornale.
Ma siccome ora anche lo sconosciuto c’ha mille amici,
me lo dite a che servono i manifesti attaccati ai muri?
Tanto la notizia di un trapasso ti arriva come un lampo
mentre controlli gli accidenti che si mandano i tuoi amici.
Un tempo capitava che se per una settimana non uscivi
padellavi il manifesto e dopo qualche mese chiedevi:
“Ma Tizio che fine ha fatto, è da tanto che ‘un lo vedo…”
“Ma come ‘un lo sai del coccolone? Ormai ‘un puzza neanche più!”
Prima, se eri una celebrità l’articolo te lo scrivevano
avanti che tu morissi e si chiamava “coccodrillo”.
Anche ora lo scrivono prima che tu muoia
ma non si chiama più coccodrillo, si chiama “bufala”.
Poi capita che muori per davvero e se hai fatto trecento canzoni,
di cui duecentonovantanove capolavori,
c’è quello che va a cercare la trecentesima
nella versione fatta mentre tossivi,
pur di postare qualcosa a cui gli altri non avevano pensato.
E poi spunta sempre quel video inedito
che se volevi che rimanesse inedito forse un motivo c’era.
Perché diciamoci la verità,
a noi di David Bowie,
di Prince
o di Moira Orfei,
mica ce ne importa per davvero.
Sennò si uscirebbe da Facebook
e si andrebbe a trovarli al cimitero.
Di portare rispetto ai morti che vuoi che ce ne freghi
se i primi a cui non si porta rispetto sono proprio quelli vivi.
A noi ci importa di fare bella figura,
di essere apprezzati,
di prendere un “mi piace”,
di essere taggati.
Dell’arte, del talento,
degli affetti di chi ci sta male per davvero,
lo sai che ce ne cale?
Aspetta, aspetta, è morto un’altro;
c’ho da postare!