La borsa degli spilli

Mio Nonno Giovanni faceva l'”apparatore”. Era l’unico a Siena che faceva quel mestiere. Anche il correttore di word me lo segna di rosso e questo la dice lunga su quanti apparatori ci siano in circolazione. Credo che mio nonno sia stato l’ultimo. Un apparatore era un artigiano che, avendo a disposizione competenze, stoffa e talento da tappezziere, veniva chiamato da tutti quelli che a Siena e provincia dovevano “apparecchiare” un evento mondano con stoffe e tappeti. I suoi lavori erano gli allestimenti delle Chiese dove si celebravano cerimonie, gli eventi istituzionali, i comizi politici e qualche altra occasione per privati disposti a spendere nel bello. Mio Nonno e mia Nonna Marina mi hanno cresciuto tra la casa dove ora vivo e la loro bottega che si trovava in fondo a Costalarga in quello slargo che tramuta Casato di Sopra in Casato di Sotto, proprio accanto al Bar di Giangio. Nanni parlava poco con tutti, tranne che con me e, nonostante le sue labbra sempre piene di spilli, mi ha insegnato che per parlare con un bambino non bisogna cambiare la voce, basta cambiare le parole. Il Nonno aveva una borsa di cuoio dentro la quale teneva martello, pinze, tenaglie, tronchesi e una miriade di spilli. Una volta ci infilai una mano e mi ricordo ancora bene che fu come se l’avessi messa dentro ad un alveare. Piansi mentre lui rideva. Per farmi calmare mi portó a Pian delle Fornaci “a pulire le guide”. Proprio dietro l’ippodromo c’era un prato che, la mattina, verso la fine dell’estate, quando sull’erba si forma la rugiada, era il luogo ideale per togliere la polvere dai lunghi pezzi di stoffa che venivano messi in terra a mo’ di “red carpet” durante una cerimonia. Io mi sedevo in fondo alla guida per fare da contrappeso e lui dalla parte opposta mi trascinava sull’erba bagnata per decine di metri che servivano al tappeto per ripulirsi e a me per sentirmi Aladino sul tappeto volante. Poi si ritornava a bottega in quella decrepita Renault con il gobbino portafortuna attaccato allo specchietto. E la borsa degli spilli non faceva più male.

Quando ci ripenso mi ricordo ancora dell’odore di quella borsa. Era l’odore di tutte le chiese del mondo, di tutti i palazzi e di tutta la polvere che c’era dentro. A volta mi capita ancora di infilare la testa nei miei ricordi del passato più o meno recente. Alcune le volte ci trovo gli spilli, altre la rugiada.

Forse, il più grande insegnamento che mi ha dato mio Nonno, ora che sono un uomo e lui non c’è più, è che, con il tempo, anche una borsa di spilli, che quando ci mettevi una mano ti faceva piangere, può trasformarsi in un ricordo bello e dolce.

ginocchio sbucciato

I ginocchi sbucciati

A Siena le ginocchia si chiamano “ginocchi” per cui passatemi la licenza poetica del titolo.

Stamani ho rivisto, dopo tanto tempo, un esemplare di bambino con i ginocchi sbucciati. Credevo fossero in via d’estinzione e invece, quel ragazzino che andava a scuola con un pantalone della tuta alzato e con il ginocchio fasciato da una garza, mi ha rimesso in moto la mia macchina del tempo personale. Mi ero rassegnato al fatto che i bambini avessero smesso di giocare per la strada procurandosi delle ferite e quella gamba malconcia mi ha restituito una speranza. La speranza di rivedere qualche gruppetto di bambini che, invece di andare a scuola, si trovano in Piazza del Mercato a fare il Palio delle biciclette, tirandole a sorte perché nel Palio si fa così e poi tornano a casa inventandosene un’altra per giustificare quei jeans strappati e sanguinosi. Mi ero rassegnato al fatto che a forza di difendere i nostri figli dal bullismo, gli abbiamo tolto l’educazione dello scapaccione, della masa, del biscotto, della piffera dati a fin di bene.
Mi ero rassegnato al fatto che, in un mondo in cui tutto è organizzato, anche il tempo libero ci rende prigionieri. Prigionieri di orari da rispettare, di lezioni di sport dove gli amici non li scegli da solo, prigionieri di un’educazione che non prevede la maleducazione che si trova in natura nel corso della vita. I ginocchi sbucciati erano un dolore terapeutico, perché la vita ha bisogno di croste che si formano e poi staccano al tempo giusto. E se provi a staccarti le croste dal ginocchio prima del tempo, nove volte su dieci tocca ripartire da capo, dalla carne viva. Ed è più facile che resti la cicatrice.

Siano benedetti i ginocchi sbucciati e sia benedetta la vita, anche quando è dura e grigia come la pietra serena.

Torre del Mangia

Se crollasse la Torre del Mangia

Se una notte, prima di andare a dormire, noi che si abita in centro a Siena, si sentisse un boato e se, correndo a vedere quello che è accaduto, si scoprisse che è venuta giù d’un tratto la Torre del Mangia, i telefoni si paralizzerebbero. Ognuno chiamerebbe i propri cari come quando muore all’improvviso un parente. Si correrebbe tutti in pigiama alla Costarella per vedere se è vero, con le mani nei capelli. Lì si troverebbe sicuramente qualcuno che si conosce bene e qualcuno, che anche se si conosce poco, per quella sera diventerebbe uno con cui dialoghi perché devi condividere qualcosa che ti fa stare male. Ci sarebbe anche di sicuro qualcuno che sghignazza, perché lui l’aveva predetto che con quel capoccione di pietra prima o poi sarebbe venuta giù. Ci sarebbe chi piange e chi bestemmia, alcuni addirittura piangerebbero bestemmiando, altri starebbero zitti accoccolati al muro, altri ancora si abbraccerebbero singhiozzando. Si tornerebbe a letto all’alba aspettando il giorno dopo per vedere se viene giù anche il Facciatone, o San Domenico, non riuscendo a prendere sonno con gli occhi pieni di paura.
Poi il giorno dopo non crollerebbe nient’altro e la paura di tutti diventerebbero 55.000 voci diverse che vogliono dire a loro dividendosi in gruppetti.

Ci sarebbero i “colpevolisti”: quelli che devono capire a chi dare la colpa, perché se la Torre è crollata dovrà pur essere colpa di qualcuno. Tra questi si nasconderebbero abilmente i “cavalcatori di disgrazie” che punterebbero il dito su qualcuno per un tornaconto preciso e personale: “Secondo me la colpa è del custode che ha sbatacchiato la porta, lo conosco bene, è quello che tromba la mì moglie…”, oppure “è colpa del Comune, con tutti quei turisti appoggiati al Palazzo a bivaccare”, o ancora “è colpa di chi faceva le tre a bere in Piazza, con quelle fiatate d’alcol la Torre sbarellava!”.
Poi ci sarebbero gli “èandatacosisti”, quelli che, di fronte all’evidenza, si stringerebbero tra le spalle dicendo: “che ci vuoi fare, è andata così”, continuando a macinare la loro vita come il criceto dentro una ruota. Tristi, ma ormai è andata così.
Tra questi ci sarebbe una nicchia di “buonvisoacattivogiuochisti” che guarderebbero il Palazzo del Comune, ormai senza Torre e Cappella e direbbero, sottovoce, per non farsi sentire bene, “tutto sommato, così il Palazzo è più simmetrico”.

Ci sarebbero gli “sciacalli”, quelli che cercherebbero di lucrare sul dramma vendendo calcinacci e i “tordi”, quelli che comprerebbero un pezzo di mattone perché almeno si porterebbero un pezzetto di Torre del Mangia in Camera.
Ci sarebbero i “romantici”, quelli che in gruppo, meglio se dopo qualche gotto, si troverebbero nottetempo a guardare il vuoto dove prima svettava la Torre, cantando cori a quattro o cinque voci con le lacrime agli occhi.
Ci sarebbero i “guardoni” quelli che verrebbero a Siena per farsi un selfie con la Piazza mutilata.
Ci sarebbero tanti che starebbero a giornata a litigare per difendere la propria versione dei fatti.
Ci sarebbero quelli che si rimboccano le maniche per provare a ritirarla su, quella Torre, e quelli che criticano quelli che si rimboccano le maniche.
Ci sarebbe quello che ha capito esattamente come si sono svolti i fatti, ne è proprio certo, e che ce lo ripete ogni giorno dal suo blog.
Ci sarebbe qualcuno che è rimasto schiacciato sotto la Torre e che verrà ricordato soltanto il giorno dell’anniversario.

Poi ci sarei io, che sarei contemporaneamente: “colpevolista” e “èandatacosiista”, “romantico” e con le maniche rimboccate a non fare niente e a mettere mi piace il giorno dell’anniversario della tragedia. Ma con la stessa identica convinzione di ognuno degli altri, di essere quello che ama Siena più di tutti.

belly bag

Indizi che ti fanno capire che sei grasso

Una sera di qualche anno fa avevo invitato un po’ di amici a cena. Inevitabilmente, dopo il dolce parte il giochino alcolico: “Quanto pesa?”

A turno si sceglieva un oggetto presente nella stanza e tutti si doveva indovinare il peso esatto. Dopo la controprova sulla bilancia da cucina, chi si era avvicinato di meno, beveva. Facile, no?

Quando il tasso alcolemico era salito abbastanza, si passò a cercare di indovinare il peso dei presenti. C’era anche un noto parcheggiatore che, all’epoca era, diciamo, la mia custodia. Tutti gli attribuivano 145, 148 kg e lui spavaldo, era sicuro di essere 130 kg. Esatti.

Aveva ragione lui! La bilancia segnava esattamente 130 kg. A qualcun altro venne in mente di girare la bilancia e sul retro c’era scritto: “pesa fino a 130 kg”! Di più la bilancia non dichiarava.

Quella sera ho capito che, anche se lo vuoi negare agli altri e a te stesso, ci sono degli indizi che ti fanno capire che dovresti metterti a dieta. Eccone alcuni:

  • Quando sali sulla bilancia e stai sulle punte tipo Roberto Bolle sperando di rubare 3 etti.
  • Quando ti pieghi per legarti le scarpe e devi rialzarti per riprendere fiato due o tre volte perché la pancia ti strizza i polmoni.
  • Quando entri in un negozio di vestiti e chiedi sorridendo alla commessa: “Avete niente per me?” E lei risponde convinta: “No!”
  • Quando ti trovi a Broadway e leggi su un’insegna luminosa: “Fame” e la tua compagna ti dice: “Guarda che è un musical!”
  • Quando ti rendi conto di avere cambiato più dietologi te che allenatori Zamparini.
  • Quando ingenuamente dichiari durante una cena coi tuoi amici che ora fai la dieta a zona consigliata da un dietologo che tutti conoscono fin dall’infanzia e loro lo chiamano, lo mettono in vivavoce cantando “Fallo sudare, o Lello fallo sudare”. E dopo due mesi lui cambia lavoro.
  • Quando mentre fai all’amore non ti devi preoccupare soltanto della tua erezione e dell’altrui godimento ma anche delle doghe del letto.
  • Quando in confronto a te, i quadri di Botero sembrano opere di Modigliani
  • Quando vai da un tatuatore e ti fa un preventivo al metro quadro.
  • Quando a tuo padre, che non è esattamente un’acciuga, gli passi i vestiti di quando eri meno grasso.
  • Quando l’unica cosa che riesci a dire in cima alle scale è “ihhhhhhhh”….
  • Quando fai pipì e per vedertelo ti devi sporgere e, siccome ti pesa anche il capo, caschi in avanti e con la testa tiri lo sciacquone.
  • Quando, se dormi a pancia sotto, ti viene la gobba.
  • Quando trovi Rotolone e ti dice: “Ti dovresti riguardare!”
  • Quando sei in aereo e prima del decollo il tuo vicino di posto chiede alla hostess se può sedersi accanto a quell’arabo con lo zaino che sta pregando.
  • L’immagine è ripresa da una campagna del 2011 che pubblicizzava un corso di pilates a Istanbul e Ankara. L’autore è Fatih Şenay, potete vedere altri suoi lavori qui.

    joker

    Cento di questi post

    Il 1 giugno 2016 è iniziata la storia de La Versione di Giampy, l’ennesimo blog da non perdere. Il mio blog. Questo è il centesimo post, praticamente uno ogni tre giorni che, dato che la redazione è composta soltanto da me, da Giampiero e dal Taglia, tutte persone che stimo a giorni alterni, sono cose di cui vado molto soddisfatto.

    Il filo conduttore di tutto quello che ho scritto in questi mesi è il mio approccio alla vita che, essendo io una persona piena di dubbi e di domande, è la totale assenza di verità rivelate. Sono soltanto opinioni e, come tali, sono del tutto opinabili.

    Il più bel complimento che mi è stato fatto è: “ti leggo spesso ma non sono mica sempre d’accordo con te”. Meglio così. Cerco lettori, non seguaci. I seguaci li cercano i blogger seri. E io l’ultima volta che sono stato serio è stata quando sono passato a comunione.

    Ecco qui sotto una piccola guida per muovervi tra le rubriche de La Versione di Giampy.

    TAGLIATELLING:

    tutto quello che riguarda il racconto di cose realmente accadute o moderatamente romanzate. Raccontate con un tono di voce ed un linguaggio politicamente scorretto e senza lesinare qualche parolaccia. Il post che vi è garbato di più di questa rubrica è: “Apologia della cattiveria”

    #FAIL:

    tutto ciò che parla dei miei fallimenti e dei miei passi falsi. Perché chi non capisce che cadere fa parte della vita, non troverà mai la forza di rialzarsi. Il post che vi è garbato di più di questa rubrica è: “Come difendersi da quel bullo che si chiama vita”

    ASOCIAL NETWORK:

    tutto ciò che riguarda i social, le loro distorsioni, le cose che fanno ridere e le persone che si incontrano girellando in queste nuove piazze. Il post che vi è garbato di più di questa rubrica è: “Mipiacisti: quelli che ti mettono like”

    STORYTELL ME:

    tutte le riflessioni che parlano di storytelling e del mio lavoro, di quanto mi piace e di quanto sia una sfida quotidiana continuare a farlo. Specialmente da quando tutti hanno deciso di potere dire qualsiasi cosa su qualsiasi cosa. Il post che vi è garbato di più di questa rubrica è: “Think dirty”: la regola dei benpensanti

     RADICI:

    è la rubrica che amo di più. E anche voi, se Google Analytics dice la verità. Qui ci trovate tutto quello che parla di Siena, di Contrada, e delle Feriae Matricularum (i miei tre amori, non sempre corrisposti). Il post che vi è garbato di più di questa rubrica è: “Cinque modi per leggere il Palio, più le Sfumature”

    DAR DI STOMACO:

    una lettura della vita, osservata con gli occhi di un gran mangione. Il post che vi è garbato di più di questa rubrica è: “Ricetta per restare 20 anni con la stessa persona”

    MONSTERS & CO:

    personaggi spiacevoli e spregevoli dei nostri tempi. E, vi garantisco, ce ne sono tanti altri da raccontare. Il post che vi è garbato di più di questa rubrica è: “Il Paraculio”

     

    Quando ho acceso i motori di questo blog venivo fuori da un periodo buio e scrivere è stata una bella terapia. Una bella catarsi fatta di battute, autoironia, cinismo, sarcasmo e malinconia. Grazie a quelli che hanno perso qualche minuto del loro tempo a leggere le mie cavolate, grazie a chi ha apprezzato, a chi ha criticato e a chi ha condiviso. Per chi scrive l’obiettivo non è cercare consenso o approvazione; per chi scrive l’obiettivo principale è scrivere. E quello è tutto quello che conta. Perché a uno come me scrivere fa sentire bene. Se vorrete continuare a leggere io sarò felice. Che poi alla fine la felicità sta nelle cose piccole. E più piccolo di un post della Versione di Giampy non c’è niente.

    Cento di questi post, vi voglio bene. E questo lo dico seriamente.

     

    L’immagine copertina è opera del fotografo Sacha Goldberger potete trovare altri suoi capolavori su sashagoldberg.com

    cuore

    Il cuore a fette

    Ieri Massimo ci ha rimessi tutti in fila. Come faceva per i compleanni di Marchino a casa sua. Quel rompiscatole che ti faceva alzare a raccattare lo stecco del gelato che avevi tirato nel ghiaino in Società; quel babbo che se non era il tuo babbo era solo un caso, ieri ci ha rimessi tutti in fila. Senza dire niente, lui che chiacchierava poco ma che c’era sempre, da sempre. Non è stato facile per niente. Perché appartenere ad una Contrada non è mica come fare parte di un gruppetto di amici e basta. E’ appartenere a un popolo che, come tutti i popoli: festeggia, si scontra e si divide. Ma in certi casi torna insieme a guardarsi negli occhi lucidi. Te sei lì, fuori da quella chiesa che osservi tutti, sapendo benissimo chi è che fino a ieri nemmeno si parlava e oggi, per rispetto, si dice “ciao”. Senza falsi sorrisi, sia chiaro, che tanto oggi di sorridere non c’è bisogno. Quando esce di scena un grande contradaiolo non c’è bisogno di darsi l’appuntamento, tanto trovi tutti lì. Perché quando tiri la riga in fondo al foglio, e la bilancia pende dalla parte della grandezza, anche chi fino a ieri non ti considerava, si toglie il cappello.

    Fare parte di una Contrada ti condanna ad averci il cuore a fette. Ed è una condanna che devi ingollare perché fa parte del gioco. Tante volte. Fino a che il cuore che si ferma non sarà il tuo.

     

    Ciao Massimo, ci si rivede ai Quattro Cantoni.

    Lo so bene che non ci sarai. Ma io ti vedrò lo stesso.

    Old Bicycle

    “Selfi” contro “Ribellini”: la Guerra Incivile

    Alcune premesse doverose prima di questo ennesimo post su un bellissimo evento sportivo che si è appena svolto nella mia città:

    • Non sono un appassionato di ciclismo
    • Non ho più una bicicletta da quando me la rubarono nel 1994
    • Se faccio alcune decine di chilometri duro fatica anche se sono in taxi e non guido io.

    Chiarito che non sono di parte, posso spiegarvi perché ho sentito il bisogno di scrivere anche io un  post su la Strade Bianche: non sono un fan della bicicletta ma sono un appassionato di social e di antropologia culturale. E, non ultimo, voglio anche io bene a Siena.

    Ho aspettato che si quietassero i rimbombi di quella che è stata una vera e propria guerra civile (anzi, incivile), fatta di post, like, commenti e condivisioni. Una battaglia che ha fatto l’Arbia, ma anche la Diana, la Tressa e i Bottini, colorati in rosso.

    Una guerra combattuta tra due eserciti, entrambi con la Balzana sugli scudi: da una parte i Selfi, dall’altra i Ribellini.

    I Selfi sono quelli che si autoimmortalano durante l’evento per dire che ci sono stati anche loro (o su una bicicletta a durar fatica, o a sostenere i ciclisti correndogli a fianco, o perché membri dello staffe, oppure perché fermi in fila a lamentarsi di una strada chiusa per alcune decine di minuti). I Selfi si autocompiacciono della loro presenza sul posto, meglio se con la bocca a culo di gallina.

    Dall’altra parte dello scherno troviamo i Ribellini. I Ribellini sono quelli che sono contro. Contro a chi dura fatica su una bicicletta, contro a quelli che sostengono i ciclisti correndogli accanto, contro a chi ha organizzato, contro a chi premia, contro a chi viene premiato, contro a chi dice che va tutto bene, contro a chi dice che va tutto male, contro a chi ha bloccato le strade, contro a chi si lamenta di chi ha bloccato le strade, contro le strade, specialmente quelle bianche. Sono contro e si ribellano, ma lo fanno soltanto battendo le mani nel muso alle loro tastiere, come se la loro opinione fosse quella che può farci cambiare opinione. L’argomento prediletto dai Ribellini sono le “file”. Lo sappiamo: tira più un pelo di fila che un carro di buoi.

    Ho visto Selfi e Ribellini darsele di santa ragione, offendersi, minacciarsi, trattarsi a pesci in faccia, prendere posizione e non spostarsi da lì di un millimetro. Fin da quando ero piccino, quando vedo due che litigano, mi viene d’istinto entrare nel mezzo per strigarli. Su Facebook questo non è fattibile. Le risse a volte coinvolgono decine di persone che entrano a commentare e se ti inserisci, rischi di essere malmenato da male parole. Il Ribellino medio cerca il pretesto per attaccare, il Selfo lo cerca per autocelebrarsi. Entrambi vogliono portare sul loro carroccio un prezioso bottino di guerra: il famigerato “consenso sociale” che si manifesta oggigiorno con il numero di like che si ricevono. Un tempo il consenso sociale era l’essere persone rispettabili, oggi è pubblicare contenuti condivisibili.  Ogni evento è buono per aumentare le divisioni tra persone che vivono gli stessi problemi, le stesse strade, le stesse opportunità. Le differenti opinioni non contano e non si rispettano: oggi conta il posizionamento. Il valore è dato dalla manifesta indisponibilità a spostarsi dall’opinione che gli altri (non importa se quelli che ci amano o quelli che ci odiano) si sono fatti di noi. E’ prevedibile con esattezza, ciò che quel politico o il suo oppositore, diranno. E ci viene naturale schierarci, anche solo con un “mi garba”, da una parte o dall’altra. Io ancora non so se sono un Selfo o un Ribellino. Io le opinioni cerco di costruirmele lasciandomi la libertà anche di cambiarle. A me la guerra mi fa cacare, specialmente quella incivile che non vuole prigionieri. Specialmente se si combatte usando come terreno di scontro la mia città.

    Dove sembra che nemmeno la pietra sia, oramai, più serena.

    eutanasia

    Fa’ come ti pare; la vita è la tua.

    “Fa’ come ti pare; la vita è la tua”, è la frase più ricorrente che le persone più importanti della mia vita mi abbiano mai detto. In questi giorni, in cui tutti si sentono in dovere di mettere bocca sulla vita (e sulla morte) degli altri, mi è ritornata alla mente e finalmente credo di averne compreso il significato. Quando, ad esempio, da ragazzo rientravo alle quattro di notte, la mattina dopo mi sorbivo delle lunghe polemiche che terminavano inevitabilmente con quella frase che, lo capisco solo ora, conteneva un trattato di filosofia che parlava di scelte, opportunità e libero arbitrio. È una frase che pronunciano i genitori e i nonni. Quelli, insomma, che ti vogliono bene davvero. Gli stessi che avrebbero potuto dirti: “Questo non puoi farlo perché lo dico io!”

    Vorrei vivere in uno Stato che si comporta come un genitore che ti ama, che soffre se te soffri ma che, alla fine lascia a te la possibilità di decidere di fare quello che ritieni sia il tuo bene. Non so cosa farei semi trovassi sul punto di scegliere. So che vorrei essere io quello che decide.
    Se dovessero arrivare sulla Terra degli extraterrestri provenienti da quel nuovo sistema solare appena scoperto, e mi chiedessero se uno di quelli che si arroga il diritto di dire ad un altro come deve vivere (e come può morire), è un essere umano come me, ecco, gli direi di no, gli direi che siamo diversi. Se lui è un essere umano allora io sono un “fa’cco”, uno che pensa che ad un altro si debba dire: “FA’CCOme ti pare; la vita è la tua.” Vedi, caro Adinolfi, se essere umano significa difendere la vita a tutti i costi, e se difendere la vita a tutti i costi significa paragonare l’eutanasia alle “pulizie” fatte da Hitler, allora te sei un umano e io no. Io sono un fa’cco. E se per ritagliarti una nicchia di consenso vuoi continuare a dire queste enormi, mastodontiche cazzate, fa’ come ti pare; la vita è la tua.