Articoli

ghost n' goblin

Quando giocavamo a nastro

Sono nato a metà degli anni ’70, giusto in tempo per ricevere per il sesto compleanno quel videogioco con due strisce che si rispediscono un quadrato che mi sembravano due tennisti disegnati da un pittore iperrealista. Due anni dopo arrivò il Vic 20, dopo altri due anni il Commodore 64. Non ho ancora capito perché i regali grossi arrivavano solo per i compleanni pari, forse i miei genitori erano rimasti attaccati all’austerity e alle targhe alterne. Boh?

Se Pokemon Go è l’omega, il Vic 20 e il Commodore 64 erano l’alfa. Due mondi separati da anni luce di distanza. Erano l’opposto del “mobile”. Solo il joystick, fallico amico di interminabili pomeriggi, era grosso e pesante come un portaombrelloni. E per giocare una partita dovevi infilare la cassetta. No, non c’era un log in da fare; c’era una cassetta. Simile a quelle che si infilavano nel mangianastri per sentire Bimbo Mix, Cristina D’Avena e Furia Cavallo del West. Se tutto andava bene dovevi aspettate una trentina di minuti prima di poter giocare. L’unica cosa vagamente somigliante ad una barra di scorrimento era un contatore numerico che girava con la stessa velocità di una giornata con la febbre a 37,2 senza televisione. E poi c’erano gli intoppi. Una volta su tre la cassetta o si inceppava, e allora dovevi ripartire da capo, o veniva risucchiata come uno spaghetto nella bocca del mangianastri. Noi sappiamo bene perché il mangianastri si chiama così.

E quei benedetti intoppi erano degli enormi incentivi ad uscire in una Siena che era ancora un meraviglioso campo da gioco e dove tutti i tuoi amici erano a portata di campanello. Le noie del Commodore mi sono costate molti strati di pelle di ginocchio, regalati agli spazzini del giorno dopo. Ma ora conosco più o meno tutti i senesi della mia età: i bulletti, gli sfigati, i miti assoluti, quelli che sapevano giocare a pallone, quelli che c’avevano sempre i doppioni, quelli che c’avevano la mamma bona, quelli che sputavano nel proprio panino per evitare il “morsino”.

Nell’era del videogioco “immobile”, Nascondino era più affascinante di Arkanoid e Buchetta ci rendeva più ricchi di Farmville. Di quel periodo ho tanti ricordi e pochi rimpianti, perché alla fine un bambino maschio nato a metà degli anni settanta era sempre goffo, mal vestito, mal pettinato e maleodorante. L’unico rimpianto che ho è quello di non aver mai restituito la cassetta con il gioco dove un guerriero coi baffi correva per ammazzare gli zombie. Me l’aveva prestata il mio amico Marco, della Pantera. Eravamo compagni di classe e, anche se una volta mi rubó la fidanzata, ci volevamo bene.  Lui internet non ce l’ha fatta a vederlo e di questo ho un grosso rimpianto.

Ora nessun dodicenne resterebbe trenta minuti ad aspettare di giocare ad un giochino con i pixel grossi come noci. Non starebbe ad osservare quel numerino che scorre lento. Oggi escono e restano chiusi dentro il loro telefonino e nessuno ha più i ginocchi sbucciati.

Parafrasando il Papa Buono: “Domani fate uno scherzo al vostro bambino. Mettetegli l’attak sotto il cellulare e appiccicatelo al comodino. E poi ditegli: esci a testa alta, questo è lo scherzo del Taglia”.

L’immagine è una schermata del gioco Ghost n’ Goblin per Commodore 64.

botero

15 scuse e falsi luoghi comuni sull’essere grassi

Convivo con un grasso da 41 anni e da lui ho capito che chi è molto sovrappeso tende a nascondersi (che tanto poi sei grasso e ti si sgama), dietro a scuse e falsità. Non ce ne vogliate, non è colpa nostra, siamo così di costituzione.

I grassi sono più simpatici – vero in parte. Enrico VIII ha fatto fuori tre mogli e anche Barbablù non era proprio un’acciuga.

Grasso è bello – Provate a fare un anno da Mac Donald’s e poi andate a chiederla a Belen, vediamo che cosa vi risponde.

Quel che non ammazza ingrassa – falso! A volte ingrassa anche ciò che ammazza, avete presente la Nutella, la Coca Cola e la cugina di Avetrana?

Non è tutto grasso che cola – falso. Pensate ad un pomeriggio d’estate, a pieno sole e voi che con i vostri 100 e passa chili, risalite come un salmone una bella stradina in salita, magari con una borsa della spesa in una mano e il guinzaglio del vostro labrador nell’altra. Poi ne riparliamo.

Ho le ossa grosse – Magari avete ragione, però non credo di aver mai visto in nessun museo scientifico scheletri con costole che pesavano tre chili l’una. Quella delle ossa, diciamocelo, è una scusa.

Sono così di costituzione – Vabbè, ne riparliamo dopo il referendum.

Per dimagrire bisogna bere tanto – Falsissimo. Ne ho le prove! Io bevo tantissimo!

Sono grasso perché ho appena smesso di fumare – Il problema è che questa è una scusa che accampa anche chi ha buttato via l’ultima sigaretta anche dieci anni fa. Non regge.

In famiglia siamo tutti grassi – Falso (a meno che tu non ti chiami Grassi di cognome). Ho visto bambini obesi con genitori che facevano la maratona di New York e ragazze magrissime figlie di madri che sembravano balenottere azzurre. Pensate alla famiglia Addams: Gomez e Morticia hanno due figli ma solo uno è ciccione. Ed è quello che mangia.

Eppure non mangio mica tanto – falsità clamorosa. Ti ho visto fare colazione con due bomboloni e mezzo litro di cioccolata calda, su…

Sono grasso perché sto attraversando un periodo di merda – scusa. Tutti i poveri disgraziati usciti dai campi di concentramento non è che avessero avuto un bel periodo…

Porco grasso non è mai contento (proverbio veneto) – non è vero. Portatelo a cena e gli vedrete brillare gli occhi.

Non si diventa grassi da Natale a Capodanno ma da Capodanno a Natale – vero ma in parte. Nei giorni che vanno da Santo Stefano a San Silvestro il grasso, che di solito preferisce il mangiare al digiuno, combatte con il proprio frigo nel tentativo di svuotarlo completamente da qualsiasi avanzo. Produce polpette mescolando carne bollita e pandori, panforti e pollo in galantina. Poi, dopo Capodanno, promette a se stesso diete che procrastinerà fino alla vigilia del Natale successivo. Ad libitum.

Non sono grasso, sono basso – di solito è una scusa, a meno che tu non sia il Pinguino di Batman o uno dei sette nani. In quel caso sei ANCHE basso.

Non sono grasso, ho preso una taglia sotto – falso. Un grasso prende sempre due taglie sopra, fino a che le trova. I vestiti elasticizzati e gli indumenti a righe (soprattutto orizzontali) sono i veri nemici dei grassi. E’ preferibile indossare un capo d’abbigliamento nero perché, dicono, il nero sfina. Evitare come la peste, per questo stesso motivo, i profilattici neri. A meno che tu non sia Rocco Siffredi.

Un grasso non è mai felice – falsissimo. Una volta ho conosciuto un napoletano che si chiamava Felice e sarà stato 150 chili!

Immagine di testata: Fernando Botero, Monna Lisa (1963)

lapo-e-lopo

Lapo e Lopo a scuola

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e la maestra mi dice: anche stamani sei arrivato puntuale!

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e la maestra mi dice: anche stamani, sei arrivato?

Lapo: Ogni mattina vado a scuola con la cartella piena di libri, con l’astuccio, i quaderni e la merenda!

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e quando arrivo dico sempre: madonna….la cartella!

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e la maestra mi dice: “Se avessi due o tre ragazzi come te!

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e la maestra mi dice: “Se avessi due o tre ragazzi come te, sarei un’insegnante di sostegno!”

Lapo: Ogni mattina vado a scuola con il grembiule e il fiocco celeste.

Lopo: Ogni mattina vado a scuola con il grembiule, il fiocco celeste e tre o quattro frittelle sparse…sul grembiule.

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e faccio colazione con Kinder fetta al latte!

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e faccio colazione con Kinder fetta al latte! Lecco la carta del suo! 

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e prendo dieci!

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e prendo dieci scapaccioni da quelli di quinta!

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e la maestra mi chiede i sette Re di Roma.

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e la maestra mi chiede i sette Re di Roma: però quando arrivo a Pisolo, si incazza sempre!

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e i miei compagni puliscono la lavagna con la cimosa.

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e i miei compagni puliscono la cimosa con me.

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e lui mi copia.

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e io lo copio. In questo si va d’accordo!

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e prendo otto.

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e prendo Otto… per la coda. Otto è il gatto della bidella!

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e salto l’ora di religione.

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e salto due ore di italiano.

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e sul quaderno la maestra mi ci scrive “Visto!”

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e sul quaderno la maestra mi ci scrive “Vispo…per niente!” 

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e mi mettono nella squadra di calcio della scuola!

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e mi mettono nella squadra di calcio di un’altra scuola… qualsiasi!

Lapo: Ogni mattina vado a scuola, il Preside entra in classe, legge i miei voti e mi fa i complimenti

Lopo: Ogni mattina vado a scuola, il Preside entra in classe, legge i miei voti e senza fare complimenti li gioca alla schedina: 1, 2, 1, x, 2

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e sui miei libri mi prendo sempre delle note.

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e sul registro mi prendo sempre delle note.

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e per colpa sua la maestra mi dice: “Domani vieni accompagnato dai genitori!”

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e per colpa mia la maestra mi dice: “Domani vieni accompagnato dai genitori!”…Tiè, tanto so’ orfano!

Duetto tratto dallo spettacolo “Mattaglia, il Senso della Vita” (2009) di Roberto Ricci e Giampiero Cito (con una strizzata d’occhio a Giorgio Gaber).

L’immagine è una delle innumerevoli versioni della campagna Mac vs Pc.

AlmoNature

Animali Umani VS Umani Animali

Nel lontano anno 2000, scampato al Millenium Bug, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione. Portavo una tesi dal titolo: “Il Palio Attaccato”. L’argomento era ovviamente il Palio di Siena. “Attaccare” il Palio, a Siena vuol dire vincerlo ma già nel 2000 la preoccupazione, anche nell’ambiente accademico, era rivolta agli “attacchi” da parte di gruppi più o meno organizzati che, spinti da un sedicente amore per gli animali o, come credo, per ottenere il famoso quarto d’ora di celebrità, scelgono ancora oggi con cadenza regolare la festa senese come nemico pubblico numero uno.

Vi risparmio il contenuto della tesi e di quali tecniche di comunicazione secondo il me di allora potevano essere attuate a tutela del Palio; quello che mi interessa raccontare è una parte, secondo me la più acuta, del lavoro che osservava come, a partire dal dopoguerra, l’animale abbia assunto un’accezione e una percezione presso i pubblici di massa che prima non aveva. Questo passaggio si attua negli anni del boom economico, in cui le campagne si svuotano di abitanti e gli animali da cortile come il cane, il gatto, il ciuco, diventano per chi, rifugiatosi in città non può farne a meno, animali domestici e veri e propri famigliari. Quello che era Fido, Bubi, Micio, assume un nome proprio. Sono gli anni in cui Disney si inventa il villain Crudelia De Mon che non ha come obiettivo quello di distruggere il mondo ma bensì di farsi una pelliccia di dolcissimi dalmata. Disney dà nomi propri a Lilli e al suo fidanzato bastardo (il bastardo più amato fino all’arrivo di Jon Snow), agli Aristogatti, a Dumbo e a Bambi. L’animale con Disney non è più bestia da lavoro o anello inferiore della catena alimentare, è il protagonista di una storia.

E’ un fenomeno che definirei “antropomorfizzazione dell’animale”; la bestia che diventa umana e alla quale si attribuiscono sentimenti che di animale non hanno niente. E’ la comunicazione bellezza. Disney ha tracciato l’inizio del percorso, ci ha abituati a vedere la realtà da un altro punto di vista e quel punto di vista è diventato una nuova normalità. Una normalità che porta alcuni a considerare gli animali più umani degli umani.

Chi gioisce per la morte di un torero, chi ammazzerebbe l’antipatico giornalista solo perché sventola un salame, chi distrugge anni di sperimentazioni in laboratorio perché fatte su delle cavie, chi toglie il miele e il latte dalla dieta di un bambino, è figlio di una deriva iniziata con il primo numero di Topolino. Che c’entra; anche io ne sono figlio e avrei dei seri problemi ad ordinare una Polenta con Stufato di Bambi in una baita di montagna oppure un piatto di Roger Rabbit alla Cacciatora.

I tuareg hanno centinaia di nomi per chiamare un cammello, ma sono nomi che descrivono le infinite modalità in cui quella bestia, che è contemporaneamente compagno di lavoro, mezzo di trasporto, cibo, patrimonio, materia prima per vestirsi, vive le varie stagioni e i suoi malesseri nel corso della sua vita. Una vita preziosa che deve essere rispettata non perché l’animale abbia dei sentimenti umani ma perché è parte di un tutto di cui noi stessi facciamo parte con il ruolo di esseri umani. I tuareg sanno bene dove finisce l’animale e dove inizia l’uomo. Per descrivere l’animale hanno centinaia di nomi, per descrivere l’uomo soltanto uno: uomo.

E vaffanculo a Walt Disney.

 

L’immagine del post è tratta dalla campagna realizzata per AlmoNature da Oliviero Toscani

credere

Perché è meglio non credere che uccidere in nome di Dio (secondo me)

Perché a chi non crede non interessa a chi chiedi i favori la sera prima di dormire.
Perché, al massimo, chi non crede prima di dormire un favore lo chiede a chi è a letto con lui. Mal di testa permettendo.
Perché per uno che non crede, ammazzare uno che non crede al suo stesso Dio non avrebbe senso.
Perché per uno che non crede, la domenica è un buon giorno per fare festa, esattamente come il lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì e sabato.
Perché uno che non crede il Paradiso lo cerca prima di morire.
Perché uno che non crede tende a tollerare di più, anche chi crede.
Perché per uno che non crede il senso del dovere prevale sul senso di colpa.
Perché uno che non crede, il perdono lo cerca dalle persone. E magari chiede anche scusa.
Perché uno che non crede quando muore è morto.
Perché se uno che non crede ha a che fare con un “infedele”, al massimo divorzia.
Perché uno che non crede sa che trovare 70 vergini è proprio impossibile.
Perché uno che non crede, a meno che non sia celiaco, può mangiare quello che vuole.
Perché uno che non crede cerca di godere…ma se anche un altro gode, non è poi questo gran problema.
Perché per uno che non crede, se un altro sceglie di morire, è perché ha fatto la sua scelta.
Perché uno che non crede, ad un concerto non ci andrebbe mai con un kalashnikov. Semmai scavalcherebbe.
Perché per uno che non crede, Dio, Allah e Buddha sono personaggi di libri.
Perché per uno che non crede, quello che dice un libro l’ha detto l’autore del libro. E basta.
Perché per uno che non crede, nessun Dio fa lo scrittore.

L’immagine fa parte della campagna “Unhate”, realizzata nel 2011 da Fabrica per Benetton Group

interessi

Gli interessi di un maschio in 5 lettere

Come cambiano nel tempo gli interessi di un maschio? Cambia poco, solo qualche vocale.

0 anni – La poppa
1 anno – La pappa
3 anni – La Peppa
5 anni – La Pimpa
13 anni – La pippa
15 anni – La puppa
18 anni – La pompa
21 anni – La pompa (della benzina)
30 anni – La pippa(ta)
50 anni – La poppa (della barca)
75 anni – La Peppa (badante)
80 anni – La pappa
85 anni – La pompa (dell’ossigeno)
90 anni – La pompa (funebre)

Boarderliners_Jee-Hwang

Concittadini: piccolo vademecum per capire come ragionano (qualunque sia la tua città)

Navigando tra i post dei tuoi concittadini è possibile definire alcuni atteggiamenti ricorrenti che possono essere categorizzati come personaggi di una commedia. Vediamo se manca qualcuno…

Il Polemico dice NO a quasi tutto.
L’Accomodante dice SI a quasi tutto.
Il Critico dice NO ad alcune cose. Quelle che non vanno.
L’Autorevole dice di SI ad alcune cose. Quelle giuste.
Il Cacacazzo è un Critico che ripete la stessa cosa più volte.
L’Autoritario dice NO alle idee degli altri e SI alle sue.
L’Ipocrita dice SI ma pensa NO.
Il Bastiancontrario dice NO anche se pensa SI.
L’Opportunista dice SI o NO, in ordine sparso; basta che gli convenga.
Il Lecchino dice SI, se quelli che contano dicono sì. E viceversa.
Il Pettiere dice il contrario di quello che dicono quelli che contano.
Il Succhiaruote dice quello che dice la maggioranza.
L’Incontentabile è sempre con la minoranza. E spesso lo fa pesare.
Lo Stronzo dice SI o NO, con una regola precisa: basta che sia sempre l’opposto di quello che pensi te.

L’immagine si intitola “Boarderliners” ed è opera di Jee Hwang. Andate a vedere altri suoi capolavori qui.

gogna

Giornalismo, pettegolezzo e pubblico ludibrio

Lo confesso, raramente compro un giornale di carta. Sono però un divoratore di articoli di giornale trovati in rete. Anche quello è giornalismo. Anzi, forse la maggiore possibilità di accedervi lo rende ancora più efficace di quello delle vecchie rotative.

C’è qualcosa che tuttavia, negli ultimi anni mi disturba. L’incapacità di alcuni giornalisti di distinguere tra giornalismo, pettegolezzo e pubblico ludibrio. Il giornalista, per me è quello che lancia o approfondisce notizie, meglio se lasciando passare la propria visione. Un mio antico docente, editorialista del Corriere della Sera, diceva: “L’unico giornalismo imparziale è la classifica del campionato, perché anche le previsioni del tempo possono essere manipolate”. E questo è quello che ti fa preferire una penna ad un’altra; una linea editoriale ad una opposta.

Poi c’è il pettegolezzo, che è della gente della strada e che è utile anche come forma di controllo sociale. “Sai, il tizio importuna le ragazze…la Tizia la dà a destra e manca…il Babbo di Caio non è il su’ babbo…”. Il pettegolezzo regola i rapporti e proprio per questo è necessario che il “becco” sia l’ultimo a saperlo. Per evitare che le corna finiscano in tragedia. Se il giornalismo diventa pettegolezzo si perde tutto questo e non si fa un servizio a nessuno.

Infine c’è il pubblico ludibrio, quella che nei tempi antichi era la gogna. Le gogne sono giustamente conservate nei musei della tortura. Perché è di tortura che si tratta.

Vedere un articolo dove, senza curarsi della portata, che con le ricondivisioni degli articoli sui social, ha assunto una forza pari a quella di un’onda che rovescia un transatlantico, mi fa pensare che ci sia una gran confusione tra giornalismo, pettegolezzo e pubblico ludibrio. Sputtanare una persona (specialmente se non famosa) su un giornale solo per il gusto di portare il vecchio pettegolezzo da bar sulla testata di un editore, è pubblico ludibrio. E’ tortura medievale. Chissà cosa ne pensano i miei amici giornalisti.

Le principali differenze tra lo storytelling e il giornalismo secondo me (stimolato da Wired.it)

Alcuni mesi fa mi sono imbattuto in un editoriale del Direttore di Wired.it dal titolo “I danni dello storytelling (al giornalismo)” con il quale non mi trovavo affatto d’accordo. Avevo scritto una lista di quelle che secondo me sono le principali differenze tra i due ambiti. All’epoca non avevo un blog. Ve li ripropongo perché credo che siano ancora attuali.

1) Lo storytelling dovrebbe cercare le emozioni, il giornalismo dovrebbe cercare la verità.
2) Chi fa storytelling indaga sulle persone, chi fa giornalismo indaga sugli scenari.
3) Omero era cieco e raccontava storie, molti giornalisti cercano di raccontare fatti ma spesso non li vedono.
4) Dopo aver letto una storia raccontata da un bravo storyteller spesso ci si commuove, dopo aver letto un articolo di un pessimo giornalista spesso vorresti piangere
5) Lo storytelling non ha la pretesa di essere autorevole, il giornalismo sì.
6) Chi fa storytelling spesso è pagato poco, chi fa giornalismo anche.
7) Non esiste l’ordine degli storyteller.
8) I Fratelli Grimm, Fedro ed Esopo raccontavano di animali parlanti ma non ho mai sentito da loro delle baggianate come da Fede, Feltri o Belpietro.
9) Uno storyteller racconta che Maradona era il più grande calciatore del mondo, un giornalista racconta che Maradona non paga le tasse.
10) Tra andare a cena con Federico Buffa o con Luca Sofri, scelgo Buffa, non c’è storia.