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hiphop

Confesso che ho molto peccato (e se trovo Hip Hop ne combino un’altra)

Ognuno nella propria vita ha degli scheletri nell’armadio di cui si vergogna a morte. Anche io ne ho alcuni e me ne vorrei liberare. Anche perché iniziano a prudermi le mani a vedere i muri imbrattati da Hip Hop. Forse è meglio non trovarcelo mai.

Pronti? Via!

Una volta ho rubato un tergicristallo perché me lo avevano rubato a me (ma dopo 10 minuti mi sono pentito e l’ho rimesso dove l’avevo preso).

Una volta ho trangugiato tutti i tramezzini di un happy hour non lasciando niente agli altri avventori.

Una volta non mi sono fermato a uno stop, un camion mi ha portato via il paraurti e sono fuggito perché il camionista era grosso.

Una volta ho suonato i campanelli e me ne sono andato a passo svelto.

Una volta ho chiesto a un ristorante di non farmi lo scontrino.

Una volta ho preso 6- a latino e ho detto a casa che avevo preso 6.

Una volta mi sono impantanato a Belcaro con una che era fidanzata (non  con me, con uno che conoscevo).

Una volta ho detto a mio padre che avevo fatto le cinque di notte per aspettare che facessero il pane.

Una volta ho fatto la pipì dentro una scarpa di una cameriera della Prova Generale mentre lei stava servendo ai tavoli.

Una volta ho telefonato alle suore di San Francesco e ho bestemmiato.

Ma non mi è mai passato per il cervello di riempire i muri della mia città con la scritta Hip-Hop. Che tra l’altro fa anche cagare.

eureka concept

Il momento magico

Faccio il pubblicitario. No, non vendo gli spazi dove si attaccano i manifesti. Sono un copywriter (quello che scrive i testi, non quello che pensa alla parte visiva) e, lo giuro, non mi occupo di diritto d’autore; almeno non come attività principale. Non sono un grafico e nn sono un fotografo, quelli sono altri mestieri e vanno chiesti i biglietti da visita ad altri professionisti. Il mio lavoro è cercare le parole nel vocabolario e metterle insieme provando a farlo in una maniera che nessuno aveva pensato prima. A volte mi riesce e a volte no. Quando non mi riesce vengono fuori degli obbrobri che se fossi un ingegnere civile sarebbero dei palazzi a rischio di crolli devastanti. Ma quando magicamente spunta un ombrello colorato sopra una massa di ombrelli scuri, allora ti ricordi che vale la pena vivere aggrappato ad un palo fatto di ansie mentre sotto di te scorre il fiume del tempo. Ecco, adesso è uno di quei momenti. Sono appena riuscito a strigare un nodo che mi si era bloccato tra l’occhio e l’orecchio destro, dentro il cervello. Non trovavo un aggettivo e invece non capivo che quello che mi mancava era una virgola.
L’istante in cui riesci a trovare un titolo che funziona è un momento magico. Quasi come quando ti accorgi che stai per baciare una tua compagna di classe per la prima volta. Non così tanto magico, ma quasi.
Una volta, per non perdere il momento, mi alzai dal letto tra gli insulti di colei che si è accaparrata il 75% del piumone, presi una matita e, siccome non trovavo né fogli, né telefonino per appuntarci sopra quella frase bellissima, scrissi il titolo sul comodino. Ci è rimasto alcuni mesi fino a che non mi decisi di cancellarlo. Tanto la campagna era già fuori.
Stanotte andrò a dormire con il sorriso sulle labbra. Domani andiamo in presentazione e già mi vedo il cliente davanti che mi dice: “Ma si togliesse quella virgola?”. E come faccio a spiegargli questa cosa del “momento magico”? “No! Non si toglie! Dovrai passare sul mio cadavere.” Sognare non costa nulla.
Buonanotte. Poi vi faccio sapere come è andata a finire.

Wild horse amongst cypress trees

La Brenna, il Trombone, il Cavallo da Purga

Per la maggior parte delle persone nel mondo, un cavallo è un cavallo e basta. Per noi senesi un cavallo può essere una benedizione o una sciagura. E’ per questo che da noi non c’è un modo solo per chiamarlo. Un po’ come accade con la neve per gli Eschimesi.

La maggior parte dei Senesi ha un soprannome. Come in ogni piccola città, dove più o meno tutti si conoscono, una caratteristica fisica o un aneddoto del passato diventano un appellativo che rimane incollato addosso alla persona per tutta la vita. Anche i cavalli da Palio non escono indenni da questa pratica.

Esistono, infatti, attribuiti ai cavalli, dei nomignoli che, oltre al nome proprio, ne contraddistinguono le caratteristiche. Sia quelle fisiche, sia quelle legate ad una più o meno probabile speranza di vincere il Palio.

Oltre alla filastrocca popolare che individuerebbe la potenza e le qualità di un cavallo (detto “Balzano” per la somiglianza con lo stemma di Siena per metà bianco e per metà nero) dalla pigmentazione bianca sulle zampe, ci sono svariate categorie di cavalli da Palio: ad ognuna di esse i Senesi attribuiscono uno dei seguenti soprannomi:

La Brenna: è un termine che indica un cavallo con scarse probabilità di vincere. “Pare infatti che derivi da un’antica voce francese braine o baraine che significa cavalla sterile…si può dire che una brenna ha le stesse probabilità di vincere il Palio di quante ne abbia una persona sterile di avere un figlio” (Alessandro Falassi e Alan Dundes; La Terra in Piazza 1975). Bisogna infatti ricordare l’associazione simbolica tra la vittoria del Palio e la nascita di un bambino. La Brenna è quella che ti fa uscire di Piazza a testa bassa ma che, in alcuni rarissimi casi, può ribaltare le previsioni. “Attenti alle sorprese”.

Il Trombone: è il cavallo potente che tutti sognano di avere. Il termine “trombone” nel vernacolo senese indica il pugno dato in pieno viso. Avere in sorte un trombone equivale a fare male alle altre Contrade con un campione che è al massimo delle sue potenzialità. Però, se poi va male, il trombone lo prendi in faccia te…

Il Bombolone: è un sinonimo di Trombone anche se ha una derivazione etimologica diversa. La “bomba” è la leggendaria “mistura segreta” che veniva somministrata ai cavalli prima della corsa. Una miscela esplosiva da provocare una deflagrazione di energie e di felicità per la vittoria. Il bombolone è anche il dolce che i Senesi mangiano per tradizione la mattina delle Prove di Notte che si svolgono due giorni prima dell’inizio del Palio. Un dolce estremamente calorico e zeppo di crema. Una cosa piacevole da gustare come sarebbe piacevole vedersi assegnare un cavallo potente

Il Marcione: è un cavallo in pessime condizioni fisiche che di solito viene scartato durante la previsita e che quindi raramente prende parte al Palio.

Il Cavallo Nòvo: è un esordiente. Non ha mai corso in Piazza e quindi è un’incognita totale. Ci sono gli esperti che ti sapranno dare tutte le delucidazioni perché l’hanno visto correre in provincia e a loro potrai appoggiare le tue speranze. Anche se, si sa, “Monticiano non è Piazza del Campo”.

Il Cavallo da Purga: è un buon cavallo ma con quello è molto difficile vincere. Al Palio si purgano tutti quelli che non riescono a vincere ma, in modo particolare, chi ha le maggiori chances di vittoria e non la raggiunge. Il fatto che un cavallo sia “da purga” può dipendere dal fatto che non è pronto al momento della partenza, dalla sua mancanza di precisione nell’impostare le curve o per il fatto che è difficile rimanervi in groppa. Di solito un cavallo da purga ha corso molti Palii ma non ne ha mai vinto uno.

Come avviene per le persone, un cavallo che si guadagna un soprannome rimane per sempre categorizzato con esso.
Così Figaro, cavallo potente che ha corso molti Palii, è rimasto etichettato come “cavallo da purga” anche dopo aver vinto la carriera del 16 agosto 1988. Dio gliene renda merito.Pytheos e Urbino, cavallo scartati per manifesta superiorità, sono sempre stati considerati dei “tromboni”, mentre Ogiva e Fenosu, cavalli ai quali nessuno dava un grosso credito, nonostante la vittoria all’esordio sul tufo non sono stati mai ripresentati perché non ritenuti idonei alla Piazza, cioè delle “brenne”

Può apparire strano che si parli di animali allo stesso modo di come ci si comporta con gli esseri umani. Questo è però il risultato di un mutamento sociale che a Siena trova la sua massima espressione e il fulcro di un grande dibattito. A Siena i cavalli vengono trattati come persone. E come noi anche loro hanno un soprannome.

Elogio della Bestemmia alla Toscana

Molto prima di “uscire a riveder le stelle” del Paradiso su RAI Uno, Benigni fu Cioni Mario: l’esempio forse più alto della poetica comica toscana insieme agli schiaffi alla stazione di Monicelli e a “dammi un bacino” di Nuti.
Gli amici burloni di Cioni Mario gli fanno uno scherzo: gli dicono che gli è morta la mamma. Che vuoi che sia.
Mario, zotico di un paese toscano non baciato dai flussi del turismo mordi un cono e scappa, con chi se la prende? Con gli amici? No. Se la prende con Nostro Signore o, quantomeno, con una sua parente stretta. Il regista Bertolucci lo inquadra con un carrello che lo segue di lato. Nel suo incedere per una stradina di campagna, snocciola una serie infinita di improperi che, visti di filato, ancora oggi non sembra possibile possano essere finiti dentro lo schermo di un cinema. Capolavoro.
Ma quello che molti non toscani stentano a capire è che quella sequenza non è comicità grottesca, è puro neorealismo.
La bestemmia in Toscana va scritta con la maiuscola perché la Bestemmia, in Toscana, non ha soltanto il valore dell’imprecazione. In Toscana, la Bestemmia è punteggiatura. E’ creatività. E’ perfino buona educazione.
“Vieni anche te stasera con noi?” “Certo, Dio #*+#!”
E’ partecipazione, è senso di appartenenza.
Ho visto anziani che si rivolgevano ad un tabernacolo dicendo, come se parlassero ad un condomino fastidioso: “Io non ce l’ho mica con te! Io ce l’ho con chi ti prega!”
Oppure il vecchio mezzadro che abitava vicino alla mia casa di campagna che, in piena era berlusconiana, aveva sostituito il nome di Dio con quello di Silvio, per potersi permettere di nominarlo invano senza grossi sensi di colpa. Vista la veneranda età non si sa mai. E se poi te la fa riscontare?
A Siena la Bestemmia si chiama “moccolo”. Mi sono sempre chiesto perché e alla fine mi sono dato una spiegazione: è perché quando ti scappa non c’è modo di trattenerla, come uno starnuto esplosivo con ciò che ne consegue. Altri dicono che il significato è l’antitesi del pio che si inginocchia davanti ad un altare con la candela accesa (il moccolo, appunto).
Ma la cosa più bella è quando sei amico di una persona devota, ti scappa lo starnuto e moccoli perché non ne puoi fare a meno. Quando ci vuole ci vuole. Poi ti rendi conto che con te c’è quell’anima pura che potrebbe essersi offesa e gli chiedi scusa, magari aggiungendo un altro moccolo, così senza volerlo. E più vai avanti e più peggiori la situazione fino a che non allarghi le braccia e spari il moccolo risolutivo che mette il punto in fondo al discorso.
Un giorno da un vinaio entrò una bella ragazza del nord Italia. Di certo non era veneta, altrimenti avrebbe capito. All’ennesimo improperio degli avventori si avvicinò all’oste e gli chiese: “Ma perché voi toscani bestemmiate così tanto?”
L’oste che stava asciugando un gottino con lo strofinaccio le puntò le palle degli occhi e dalle labbra violacee disse: “Signorina, forse è perché noi ci si crede.”

L’immagine è una foto del grande attore toscano Carlo Monni scattata da Niko Giovanni Coniglio

mastro lindo

Il Genio del Marketing

C’è una nuova moda, che forse è sempre stata di moda: è quella ci pararsi il culo prendendo le distanze dalla comunicazione; specialmente in politica, specialmente in Italia. E provincia.

Come se la comunicazione fosse la mela del peccato dalla quale tenersi attentamente alla larga. Per me, che la vivo come un lavoro e come una passione, la comunicazione non è la mela del peccato. per me la comunicazione è una mela e basta. E’ colui che la maneggia che può decidere, più o meno volontariamente, di farla diventare la mela di Steve Jobs, quella dei Beatles, una bellissima torta appena sfornata, o la mela avvelenata della strega di Biancaneve. La comunicazione è come un coltello, puoi usarla per tagliare una fetta di pane o per tagliare una gola.

Questo non tutti lo hanno capito, ma tutti hanno capito che la comunicazione funziona e quindi, se si vuole arrivare da qualche parte, la si deve utilizzare.  Con l’accortezza, una volta arrivati a destinazione, di prenderne accuratamente le distanze.

Ieri ho sentito un Presidente del Consiglio di uno Stato dirimpettaio della Libia che diceva: “Questa legge non me l’hanno suggerita mica i geni del marketing…”; con quel disprezzo sottinteso riversato all’improvviso nei confronti di chi ti ha organizzato il Giro d’Italia in camper, settecento Leopolde, quattromila dimissioni e che “ADESSO” tratti come il tuo ex maglione preferito che usi per spolverare.
Oppure ho sentito quel saltimbanco tarantolato che ha fatto fortuna con un blog, che accusa i suoi avversari di sparare fango attraverso i social, su una giunta che non c’è. O anche quell’unno con le felpe geolocalizzate che si lamenta perché su facebook la gente condivide e commenta le sue sparate che sembrano delle gare di rutti.

Di persone che fanno comunicazione di mestiere ne conosco molte, alcune mi stanno molto simpatiche, altre meno, come penso che accada anche tra gli avvocati, tra i medici e tra i calciatori. Alcuni li reputo molto bravi e altri meno come penso che accada anche tra gli avvocati, tra i medici e tra i calciatori. Ma non ho mai pensato che qualcuno di loro fosse un “genio del marketing”. L’unico genio del marketing che conosco è Mastro Lindo: perché è effettivamente un genio e perché fa vendere vagonate di un prodotto come tanti altri da oltre 50 anni.

Perché dico questo? Perché noi che facciamo un lavoro che ancora è considerato un passatempo, spesso pagato poco e male, che si deve svolgere di fronte a clienti che pensano, comunque, di essere più titolati di noi a parlare. Ecco, non credo che uno che fa questo lavoro abbia l’ambizione di essere considerato un “genio”. Gli basterebbe essere considerato un professionista.

Vabbè, è troppo difficile da spiegare. Torno dentro la lampada, vai.

Aquila 1928

Avanti un altro

Vi svelo il finale: non ci rimanete male, i ragazzi che vedete nella foto sono tutti morti.

Alcuni anni fa, insieme a un gruppo di amici che in quel momento rivestiva il ruolo di Commissione Cultura della mia Contrada, pensammo di raccogliere in un libro molte foto dell’ultimo secolo, andando a scovarle nei cassetti dei nostri contradaioli. Una delle più belle per me è quella che vedete. Non perché sia tecnicamente perfetta dal punto di vista fotografico e quella ricolorazione fatta col pennarello giallo la rende quasi ridicola; ma perché in quei volti ci ho rivisto i ragazzi che anche oggi si vestono in comparsa e mi ha ricordato quel passaggio de “L’attimo fuggente” in cui il mitico Professore interpretato da Robin Williams fa capire ai ragazzi che tutti noi, alla fine, siamo cibo per i vermi.

Tra quei volti ne ho riconosciuti tre: il primo a sinistra è Piero Petreni, vecchio e autorevole alfiere di Piazza. All’epoca della foto Piero lavorava come ragazzo di bottega dal mio bisnonno Ettore (lui era dell’Onda) e fu quello che andò a fare la spia al suo datore di lavoro perché aveva scoperto che il più piccolo dei suoi quattro figli (mio Nonno Nanni), da tre mesi preferiva andare a giocare a pallone piuttosto che frequentare la quarta elementare. Ettore, che era da poco rimasto vedovo, vide bene di chiudere in camera Nanni, che da poco era rimasto orfano, e tenercelo per tre mesi. All’epoca non esisteva Telefono Azzurro, evidentemente. Piero “lo spione” divenne come era logico, il nemico numero uno di Nanni. Poi nel mezzo ci fu la vita e mi immagino che trovarono il modo di diventare grandi amici perché la sera del 16 agosto 1988, a vittoria di Palio, li vidi abbracciarsi e piangere come bambini in mezzo a Costalarga. Il mio Nonno, anche se ancora giovane, era già praticamente impossibilitato a camminare a causa di una malattia ma trovò ugualmente le forze per arrivare in Contrada prima che arrivassimo noi con il Paio vinto. Se ne andarono via nel giro di pochi anni tutti e due e chissà se Nanni avrà trovato il modo di fargli pagare quella infame spiata.
Quello a sinistra del Duce è Vasco, il maggiore dei fratelli del mi’ Nonno. Faceva il pittore e restaurava i dipinti della Scuola Senese alla Pinacoteca, di lui è impressionante la somiglianza con suo figlio Sandro. Il penultimo a destra è invece Carlo, l’altro fratello del mio Nonno (manca Mario, sordo, che fece l’economo per molti anni). Carlo fu barbaresco e tamburino di Piazza. Gli altri non li riconosco, forse alcuni di loro non erano neppure dell’Aquila. Ma la cosa più bella di questa foto è che la vita è uno tsunami che ti travolge e ti spazza via, anche se sei grande e grosso da poterti vestire da Duce.
Eppure in nessuno dei loro occhi c’è il minimo riferimento alla morte. Probabilmente si stavano domandando chi avrebbe vinto il Palio; e basta.

Anche noi passeremo come un’ondata e forse qualcuno colorerà la nostra foto col pennarello senza sapere come ci chiamavamo. Ma forse qualcuno si ricorderà di noi e se avremo fatto qualcosa di meschino come fare la spia che è costata ad un amico tre mesi d clausura, ci sarà perdonato. Chissà se toccherà anche a noi abbracciare un vecchio coetaneo in Costalarga prima che qualcuno ci dica: “Avanti un altro”. Chissà se ce lo saremo meritati. Chissà se saremo volti riconosciuti oppure invisibili. Dipende da noi.

La foto risale al 1928 e fa parte delle foto raccolte per la pubblicazione “Un secolo di Aquila” realizzata nel 2012 dalla Nobile Contrada dell’Aquila.

evento verdone 2

I Potenti, Quelli che vogliono diventare potenti e i Trombati

Il mio intervento su Potenti e affini in occasione del settantesimo anniversario dell’Operetta “Il Trionfo dell’Odore” scritta da Mario Verdone.

SIENA, 3 marzo 2015

Scusate, volevo andare a Braccio ma alla rotonda di Fontebecci c’era un ingorgo, sicché ho scritto tre paginette.

Perdonatemi le volgarità eventuali.

Per scrivere un’operetta non basta essere bravi a scrivere. Per scrivere un’operetta bisogna avere due caratteristiche: essere studenti ed essere goliardi. Essere studenti è abbastanza facile; la cosa difficile è l’altra, perché ci devi essere portato, un po’ di talento naturale ce lo devi avere. Quando
cominciai a fare le Feriae, il Principe di allora mi disse: “Te saresti quello bravo a scrivere? Ecco, domani ci si trova, porta una scena.
Ambientazione: far west”. Io secondo voi portai una scena? Noooo, portai tutto il primo atto. Lo scrissi in una notte, di corsa. E correvo, correvo, correvo…fino a quando non arrivai…alla lettura del mio capolavoro davanti agli anziani. C’ero io, il regista Carlino Castellani, il Principe Mao
Garosi, quattro o cinque pluribollati e l’aiuto regista: una figura epica, Giorgino il De Sanctis che mi guardava, come se fossi un marziano, con in bocca una sigaretta finissima che fumava senza mai sgrullare la cenere.
Inizio a leggere e, solo nel primo atto, metto 37 cambi di scena, compresa una vista aerea del villaggio Sioux (e ancora non avevano inventato i droni per tutti). Alzo gli occhi dal copione e vedo un Giorgino basito, che mi fissa dietro una coltre di fumo con la cenere che gli era caduta disperata sulla pancia. Mi guarda, mi lancia addosso un bestemmione e fa: “Tagliatella, ma te vuoi fare l’operetta o il cinema???”.
Del mio primo atto andò in scena solo il titolo: “Phicauntas”. Quello piacque.
Allora, come deve essere un’operetta per evitare le cartate dai dottori e dal pubblico? E di cosa deve parlare? Sono auspicabili i motti arguti e le battute costruite con intelligenza, tipo
“Sopra NOI capre la Banca campa, sotto UNA capra la banca crepa”.
Però ci sta che non faccia ridere, sapete, il pubblico è un po’ macchinoso.

Quindi se le battute difficili non vi riescono, saltuariamente è consentitoricorrere a doppi sensi, anche licenziosi, tipo: “Dov’é la principessa?” “Sire, la Principessa è sul pisello!”.
Oppure potete fare uso della gestualità corporea, tipo: “Con quante sei andato mentre eri in Erasmus?” (Agitando la mano come per dire “insomma”) “Sei???!!!” “No, quasi una!”
L’operetta che va in scena a maggio, viene scritta fin da settembre dell’anno prima, e passa una serie di vagli, di tagli e di revisioni fatti durante cene e libagioni con i più anziani. Durante la prima lettura c’è sempre uno che viene invitato per rappresentare lo spettatore medio (all’epoca mia si chiamava Provenzano); ecco, se ride lui vuol dire che il teatro riderà. Di solito la sua risata è questa (faccio la risata di Provenzano) e poi alla fine della risata, ti spiega anche la battuta…che hai scritto te.
Lo spettatore medio ride a delle cose di cui non riesci a darti una spiegazione, tipo: “Alabarda spazialeeee!!!” o “Sono il Paguro. Avvicino la testa al culo, quando ho pagura.“ Queste fecero ridere, ve lo giuro, ma non ho mai capito il perché.

Poi, quando vai in scena ci sono delle variabili umane impreviste tipo l’”attore che non ci mette mano” o il “goliardo anziano ingestibile”.
L’attore che non ci mette mano è quello che: o non impara il copione, oppure impara anche le parti che spiegano la parte. Mi ricordo di una volta in cui un mio paribollo, che per rispetto chiameremo con un nome di fantasia, Rotolone, imparò la sua battuta così: “Quanto prese all’esame? Diciotto. Diciotto coltellate gli piantò nel cuore. Guarda l’orologio ed esclama. E’
tardi. Esce di scena correndo.” Nooo Rotolo, quello tra parentesi non lo devi dire…..
Oppure il goliardo ingestibile. Era il ’97 e sul proscenio dovevo stare nascosto dentro un barile e uscire fuori alla fine di una scena di gruppo in cui recitavano studenti che avevano da 9 bolli in su. Tra loro c’era un goliardo che, per garantire la sua privacy, chiamerò con un nome generico, Pippo.
Quel pomeriggio Pippo aveva un pochino straviziato; tirando su lo sguardo lo vidi comparire da sopra alla botte che mi guardava chiedendomi: ”Che devo di?”. Io gli suggerii la sua battuta e lui: “Non ho capitooo!!!!” Cominciò a scuotere il barile rischiando di farmi rotolare sull’orchestra. Io uscii fuori dalla botte tipo Arlecchino con un “Eccomi qua” che strappò anche un applauso.
Il problema fu proseguire. Pippo fu portato fuori e a un vigile del fuoco di turno dietro le quinte disse: “Pompiere, sigaretta” E lui: “Guardi che sono qui proprio perché non si può fumare” “Accesa!” Il vigile del fuoco non se la sentì di contraddirlo, prese il proprio pacchetto, accese una sigaretta, e la porse a Pippo, che proseguì felice la sua serata al bar.
Di variabili impazzite ce ne sono diverse ma quando scrivi un’operetta devi essere un po’ coraggioso e tenere sempre presente che l’operetta deveprendere di mira e deridere chicchessia ma principalmente tre categorie di esseri umani: i potenti, quelli che vogliono diventare potenti e i trombati.
“I potenti” sono l’obiettivo principale, è ovvio che al Goliardo restino un pochino sulle palle. Sono quelli che possono NON FARTI FARE qualcosa che vorresti fare o che possono dirti COME lo devi fare:

Chi sono?

I professori che POSSONO decidere il tuo voto
i vigili e le guardie che POSSONO farti la multa,
i dottori polemici che POSSONO rovinarti una serata a bollore,
i medici che POSSONO leggere le tue analisi del sangue,
i dietologi (io li odio proprio) che POSSONO dirti quanto e soprattutto cosa mangiare e bere,
i banchieri che POSSONO decidere se avrai o non avrai il mutuo
il Rettore che PUO’ decidere come va la tua Università,
il Sindaco e gli assessori che POSSONO stabilire come va la tua Città,
i presidenti di qualsiasi cosa che POSSONO comandarti, metterti le tasse, cambiare le carte in tavola,
i preti e gli arcivescovi che POSSONO farti venire i sensi di colpa,
il Papa che PUO’ chiacchierare tutte le domeniche,
il Papa Emerito che PUO’ dire “sono stato Papa…e sono ancora vivo!!!”
e infine, più potente di tutti e per questo da prendere in giro più di tutti, la Morte, che PUO’ toglierti la parola quando gli pare.

Poi ci sono “quelli che sperano di diventare potenti” sembrano ganzissimi, ti promettono che domani ti alzerai bello, ricco e senza occhiaie, che il mondo sarà come lo vuoi te, che quando ci saranno loro vedrai che libidine.
E il problema è che ci credi! Chi sono? Oltre a Lucignolo e a tanti venditori di fumo, ci sono i lecchini e i lacchè, i portaborse, gli assistenti, i candidati a tutto, i giornalisti che non fanno le domande e tutti quelli che conoscete che per non rischiare di cascare strisciano.
Infine ci sono “i trombati” sono tutti gli “ex qualcosa”. Tutti, tranne l’Ex Sindaco di Firenze che va messo nella prima categoria.
Sono quelli che hanno toccato il fiocco dei calci in culo, magari l’hanno anche preso, ma mentre la giostra girava, gli è cascato di mano. Ecco, quelli sono pericolosi, perché continuano a rimuginarci. “Eppure l’avevo preso, potevo fare un altro giro a sbafo, accidenti a quello dietro che mi pintava, questo giro non vale, ora sento se mi rifanno montare…”. Queste sono le tre categorie che chi scrive un’operetta dovrebbe mettere sempre tra i personaggi. Non potete capire quanto, per un ragazzo di 20 anni sia bello scrivere per il teatro goliardico. In quel momento pensi che te nella vita non potrai mai diventare come qualcuno di quelli che metti alla berlina. E
questa è un’illusione meravigliosa.

La Goliardia è meravigliosa. E ha una mamma ancora più bella di lei. È una signora di una certa età ma è sempre discreta, una milfona, insomma. E si chiama Libertà. Piace a tutti eh, ma fa paura, mette soggezione. Perché come scrisse il grande Roby Ricci, la Libertà è un cavallo che scalpita. E per un Goliardo, che si diverte a prendersi gioco di potenti, aspiranti potenti e
trombati, quel cavallo continua a correre fino a che la Morte, la più potente tra i potenti, non decide che le tue battute le sono venute a noia.
Quello che possiamo fare è continuare a tramandarci, per fare in modo che ci sia sempre qualcuno dopo di te capace di far correre quel cavallo. Perché nessuno è eterno, nessuno viene risparmiato.

NEMINI PARCETUR.
GAUDEAMUS.

Foto di Mario Llorca. Per vedere i suoi lavori mariollorca.com

Evento verdone

Evento verdone

roberto ricci

Roby è presente. Ancora.

Oggi sarebbe stato il compleanno di Roberto e mi piace ricordarlo così, con le parole che scrissi di getto quando, tre anni fa, la Nobile Contrada dell’Aquila decise di ricordare il suo figlio più bello, in una serata in Piazza Jacopo della Quercia in cui si ritrovarono più di mille persone.

“Per lavoro e per passione mi diverto a scomporre i molteplici significati delle parole di quella meravigliosa lingua che è l’italiano. Questo lo devo molto a Roberto Ricci che, quando avevo quattro anni mi dette una spinta sul palco del Teatro dei Rinnovati in una delle primissime edizioni di Ondeon. Lui, che di anni ne aveva diciotto, aveva scritto, con la sorella Patrizia, un delizioso sketch dove dei bambini armati di martello, distruggevano il mondo degli adulti per ricostruirlo a misura loro. Da quel momento per me e per la mia generazione di contradaioli dell’Aquila, salire e scendere dal palcoscenico è stato un appuntamento costante. E con noi c’è sempre stato Roberto, il cui strumento, a differenza di ciò che tutti credono, non era la chitarra ma la testa. Una testa capace di raggiungere picchi altissimi di poesia e contemporaneamente di giocherellare con i pertugi anche triviali, del nostro vocabolario. A me questa “escursione termica” tra il Roby alto e il Roby basso, mi aveva fatto innamorare di lui come di un fratello maggiore al quale tendere e che non vuoi deludere mai. Poi ci sono stati gli anni delle Feriae Matricularum. E lui, costantemente antitetico, era riuscito ad imporre un nuovo stile alla musica delle operette con canzoni memorabili fatte unendo brani di provenienze tra le più variegate.
Il Riccino è stato sempre con me, che ero consapevole che dovevo annullare la possessività nei suoi confronti, perché, come una “Bocca di Rosa” della musica, si concedeva a molti e spesso. Di Roby conveniva non essere gelosi. L’ho capito bene nei giorni di dolore che sono seguiti alla sua uscita di scena. A salutarlo c’erano, oltre a chi ci doveva essere, persone di ogni età, ex sindaci, ex rettori, studenti e suonatori, docenti e scansafatiche, bestemmiatori e sacerdoti, antiche signore e ragazzine, Quel giorno Siena era lì.
Sono stati mesi cupi e la ferita non ha ancora fatto la crosta, dopo più di tre anni la voglia è quella di cercare di girare pagina. Questo non vuol dire dimenticare, al contrario, giocando ancora con le parole, vuol dire capire che Roby è presente. Presente perché è ancora fortemente qui, in tutte le innumerevoli tracce di sé che ha disseminato per Siena. Presente perché la vita non si vive nel passato e il futuro, nel momento in cui si palesa, diventa comunque “presente”. Presente perché ci siamo tutti noi, geneticamente modificati dall’averlo vissuto come fratello, come amico, come figlio, come uomo da abbracciare a cucchiaio, come babbo, come compagno di classe o di bisbocce, come vicino di palco o compagnia notturna.
Non ho la fortuna di credere ad un “dopo” dove ci si ritrova e ci si riabbraccia. Ci spero tanto ma non ci credo. Per questo mi basta credere che il mio grande amico sia ancora qui. Fortemente presente.”

Auguri Mostro.

susine

E i morti saran sùcine…

Con l’avvicinarsi della Festa Titolare e  del Giro della mia Contrada, rispolvero questo pezzo evergreen su come si “dovrebbe” cantare il Maria Mater Gratiae.

Lungi da me volere scadere nell’irriverente. Quando si parla di cose di Chiesa bisogna sempre andarci con i piedi di piombo. Non vorrei fare la fine di Papa Luciani o, peggio, incorrere negli anatemi lanciati da Don Flavio. Però, lasciatemelo dire, il modo in cui cantiamo il Maria Mater Gratiae durante il giro, è a dir poco esilarante. Non per il fatto che il testo latino viene ciancicato in maniera atroce, quanto perché il significato che ne deriva è completamente diverso da quello originario.
Volete un esempio? Ecco, frase per frase come dovrebbe essere e come in realtà viene cantato il Maria Mater Gratiae:

Vero: “Maria Mater Gratiae. Mater Misericordiae, tu, nos ab hoste protege”
Falso: ” Maria Mater Gratiae. Mater Misericordiae, tu nostra madre protege”

I ringraziamenti rimangono gli stessi ma chi è che deve essere protetto? Il testo originale dice “ab hoste” che non vuol dire proteggici dall’oste che ci fa mangiare male e spendere tanto, ma proteggici dal nemico. Ecco, il popolo di tamburini e alfieri che, nelle chiese delle consorelle rende omaggio, pare che non tema i nemici ma chiede, in un modo un po’ infantile: “mamma proteggici!”
E questo è niente, state a sentire il secondo verso:

Vero: “Et mortis hora suscipe”
Falso: “E i morti saran sucine”

Che? I morti saranno sucine? Se non sbaglio nelle campagne senesi le sùcine sono quelle susine che, se mangiate in grande quantità provocano spiacevoli disturbi gastroenterici. Se i morti saranno susine i vivi sono forse albicocche? E i moribondi…pesche noci!? Roba da matti, perché poi i morti dovrebbero essere susine? Forse il Maria Mater Gratiae è un canto buddista dove tutto ha una grande anima e allora mi viene il dubbio che tutte le volte che mangio la marmellata ho appena spalmato nel pane un paio di cadaveri.
Andiamo avanti:

Vero: “Jesu tibi sit gloria. Qui natus es de virgine cum Patre et Almo Spiritu”
Falso: “Iesus Cristi gloria. Chi in altus è ‘sta virgine? Cum Padreterno Spiritu.”

Qui ci si chiede (che il Padre Eterno ci perdoni!), quante vergini sono rimaste. a risposta è retorica, come la domanda.
Se è vero che il latino è una lingua morta, questo è un oltraggio al suo cadavere. Chissà se prima o poi impareremo. Nel frattempo, aspettando di ascoltare gli strafalcioni dei monturati, mi concedo una susina, pace all’anima sua. Il Giro è maturo.

W l’Aquila in sempiterna saecula. Amen.

 

Nella foto una marmellata di susine, o sùcine (per dirlo alla campagnola).

ojala

Gli incontri più assurdi che io abbia mai fatto in un negozio

Vivere in una piccola città ti offre la possibilità di entrare ancora in qualche piccolo negozio dove, se sei particolarmente fortunato, capita di imbattersi in umanità di vario genere. Ecco gli incontri più assurdi che io abbia mai fatto in un negozio:

Decimo posto: estate caldissima; dal vinaio entriamo per prendere due panini e troviamo l’oste a torso nudo coperto soltanto da un grembiule. Sta affettando un pane stringendolo sotto l’ascella. Ordiniamo: “Due gottini di rosso e ce ne andiamo!”

Nono posto: pizzeria al taglio, siamo io e un altro signore in fila, ma lui è prima di me. Siamo vicino alla chiusura e ci sono rimasti una quindicina di pezzi. Chiedo all’altro: “Lei quanti ne prende?” e lui a me: “ A lei quanti ne servono?” “ Me ne bastano tre, grazie”. Lui, rivolto al pizzaiolo: “Me li dia tutti!”. E’ la sera che ho iniziato a studiare il voodoo.

Ottavo posto: in ferramenta, sono in fila aspettando il mio turno. Entra un signore un po’ avvinazzato, supera la fila tra le proteste di tutti e al bancone chiede: “Le brugole ce l’hai?” ”Sì” Il signore avvinazzato sorride e dice: “Bene, o cacciatele nel culo!” E esce. Forse c’era stato uno screzio al bar, poco prima.

Settimo posto: dal fornaio, studentessa fuori sede evidentemente appena arrivata in città: “scusi, che cos’è il ciaccino?” “E’ una pizza bianca che può essere anche ripiena”. “Ok, allora una pizza bianca, una focaccia ripiena e un ciaccino.”

Sesto posto: In gelateria, turista anglofona alla gelataia: “Scusi mi fa assaggiare pistaccio? E anche nociolla? E anche straciadela?” Dopo avere ingurgitato tre palette, la turista esce dicendo: “No piace niente!”

Quinto posto: Signore insospettabile sottovoce all’edicolante: “Ma  i porni non li fanno più?” “Sì, ma non li tengo” “Maremma cane, ‘un mi fa internette!!!”

Quarto posto: Alimentari, signora ben vestita agita un cartone di latte: “E’ parzialmente stremato?”. Alimentarista: “No, è intero ma se continua a sciaguattarlo diventa stremato del tutto”.

Terzo posto: in farmacia, trentenne vecchio con la camicia a maniche corte. Gli dico: “C’era prima lei?” E lui: “No no, c’era prima lei”. E mi passa avanti.

Secondo posto: alimentari sotto casa, donnina di millemila anni: “Ce l’ha il prosciutto di palma?”

Primo posto: fruttivendolo di cui non dirò il nome, tanto il cognome lo sapete. Entra una bella signora con due figlie ventenni spettacolari. Prende un cestino di fragole, lo porge al fruttivendolo e chiede: “Me le frulla?”. Lui: “Magari Signora, magari.”

 

L’immagine è opera dell’illustratore Eiko Ojala. Potete trovare altri suoi capolavori qui: https://www.behance.net/eiko o qui: http://ploom.tv