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scared little girl in her bed

I sei gradi della Paura

Se gli Ammerigheni vi hanno convinto che a fine ottobre la zucca è meglio del Pan co’ Santi, ecco una piccola infografica per aiutavi ad usare in maniera appropriata il termine “paura”. Perché le emozioni hanno tante sfumature e, se proprio volete avere paura, cercate di farlo con la terminologia corretta.

i sei gradi della paura

Infografica: i sei gradi della paura

Detto questo, qui sotto proverò a fare degli esempi per chiarire meglio quello che l’infografica potrebbe non avere descritto bene:

5 esempi di TIMORE:

  1. “Ho il timore che quella cosa che ho appena mangiato non sia Nutella”
  2. “Ho il timore che per i prossimi due mesi non perderò un etto.”
  3. “Temo che Babbo Natale non esista, diciamo”
  4. “Temo che se vado al Vinitaly mi ubriacherò selvaggiamente”
  5. “Temo che anche quest’anno non comprerò mai la Gazzetta dello Sport”

5 esempi di ANSIA:

  1. “Tra due mesi devo fare le analisi del sangue. Che ansia!”
  2. “Il fatto che su quella lettera ci sia scritto Equitalia mi genera un pochina di ansia…”
  3. “Domani c’è lo sciopero dei taxi, sono in ansia”
  4. “E’ già un mese che non so come sta Jon Snow, sono in ansia per lui”
  5. “Il mio amico Leonardo Di Caprio si è lasciato con la fidanzata, ma tanto in ansia per lui non ci sto”

5 esempi di SPAVENTO:

  1. “Ahhhh, è finito il prosecco!”
  2. “Oddio, non sei una donna?” “No, tesoro!”
  3. “Cos’era quel flash?” “L’autovelox!”
  4. “Mammaaaa! Cos’è quella cosa nel piatto?” “Lasagne, amore!”
  5. “Ahhhhh, che paura!” “Vabbè, ritorna quando ho finito di truccarmi!”

5 esempi di PANICO:

  1. “Perché quel signore con la barba e il turbante ha appena sgozzato la hostess???!!!!!”
  2. “Dottore, perché sta piangendo con le mie analisi in mano?”
  3. “Qualcuno tiri subito fuori un caricabatterie dell’iphone, vi prego!!!!”
  4. “Come si fa ad uscire da questo cazzo di Sebach!!! Aiutooo!!!!”
  5. “Cosa intende con “Le hanno clonato la carta di credito?!””

5 esempi di TERRORE:

  1. “Non c’è il wifi in questo albergo? Ma sta scherzando?”
  2. “Dottore sia più chiaro, cosa significa “sono tre gemelli”?”
  3. “Ma davvero siamo ad una degustazione di tofu?”
  4. “Dove mi avete trasferito? A Vibo Valenzia????”
  5. “Negli alpini? Ma io lo avevo scritto per scherzo!!!”

5 esempi di ORRORE:

  1. “Ha vinto Trump? Noooo!”
  2. “Da quando hanno aperto il ristorante cinese non trovo più il gatto.”
  3. “Ma davvero dopo la palestra non fai la doccia?” “Se è per questo neanche quando torno a casa!”
  4. “Rivestiti, ti prego!”
  5. “Vabbene l’ascensore bloccato da stamani, ma almeno non scorreggiate, cazzo!”

 

 

tommy neonato

Come fa un neonato a profumare?

Un dubbio mi tormenta da una decina di giorni: un bambino che deve nascere resta per nove mesi sempre più schiacciato tra stomaco, vescica e intestino, dei posti dove si producono tra i puzzi più insopportabili del mondo; quando viene alla luce nessuno si prende il disturbo di lavarlo con saponi francesi, al massimo una passata di carta come faresti col parabrezza dopo che hai attraversato un guado fangoso al Camel Trophy. Eppure, appena ti mettono tuo figlio sotto il naso, ti sembra di sentire l’odore più bello che tu abbia mai provato. Mi sono chiesto come questo sia possibile, perché vabbene l’ebbrezza del primo incontro, passi pure l’irrazionalità data dall’euforia, ma se tiri fuori un fiore da un cassonetto, il fiore puzza per forza di cassonetto.

Ci ho provato a spiegarmelo e forse stanotte, mentre tenevo un biberon in mano, credo di aver capito: un figlio è una doccia. Può essere bollente, fredda o miscelata a modino. Comunque, ti lava. Ti porta via il fetore che avevi addosso prima e ti sembra che quel profumo provenga da lui. Sbagliato! Viene da te. E te lo devi godere perché dura poco, perché subito ricominci a sudare di nuovo, a lamentarti, ad impuzzolirti con le ansie e le paure. I neonati non profumano, è la tua testa che, per un attimo, odora di buono. Se ci riesci puoi farlo durare per molto tempo, ma bisogna essere molto bravi e dimenticarsi che la logica sta da tutt’altra parte.

tommaso appena nato

Il Padre, il Figlio e lo Spirito, tanto

Ci sono alcuni che sostengono che i genitori bravi debbano essere “severi”, forse è per quello che il direttore dell’Ostetricia si chiama così. A me credo proprio che non mi riuscirà. Ho accolto mio figlio come una benedizione e, da laico quale sono, non voglio scomodare nessuna divinità, anche se il test positivo l’abbiamo visto la sera di Natale.
Non c’è stato nessun miracolo, nessuna cicogna e nessun cavolo. Tommaso è arrivato alla vecchia maniera, con una bella paliata di spermatozoi. E lui è arrivato primo, nato come Giulio Cesare in una calda mattina di agosto, di martedì.
E mentre alla Mamma (che è stata superlativa) veniva chiusa la cerniera, me lo hanno portato. Deve aver pensato che il suo primo regalo fosse un bell’orso di peluche. Me lo hanno messo sul petto nudo e, mentre i nonni, gli zii e il cugino bello si abbracciavano e piangevano come a Palio vinto, lo ho accolto sorridendo. Ero convinto che avrei pianto, visto che mi commuovo anche quando riguardo Fantozzi e Amici Miei. Invece no. Ridevo. Perché voglio che nel rapporto tra mio Figlio e suo Padre ci possa essere sempre una relazione fatta di tanto spirito, di ironia, di battute e ogni tanto, ma solo quando ci vuole, anche di qualche masa e nocchino.
Ero felice come quando la mia nonna Marina mi faceva i ciambellini. Perché la felicità sta soprattutto nelle cose piccole e profumate. E stavolta la ciambella è riuscita col buco. La mia più bella start up, di cui sono socio di minoranza con Lisa. Lei sarà l’amminstratore delegato della sua vita, io spero di essere un buon consigliere di amministrazione, nell’attesa che possa volare con le sue ali e quotarsi nella borsa delle brave persone. Quello sì, che sarebbe un successo. Altro che Amazon, Google o Facebook! W la vita e chi riesce ad affrontarla anche quando ti travolge uno tsunami di felicità.
Ora basta, devo andare a fare il mio dovere. Sorridendo.

jon snow

Il giorno in cui finirà Il Trono di Spade

 

Il giorno in cui finirà “Il Trono di Spade” sarà più o meno come il giorno in cui ti dicono che devi proprio smettere di farti le pere. “Hai capito?! Devi smet-te-re!”
Inizialmente ci sentiremo liberati; sono otto anni che siamo entrati nel tunnel, ma già dal giorno dopo, come tossici in cerca di una dose, andremo a rivederci la prima puntata della prima stagione. Lo faremo con gli occhi pieni di pianto, perché, di certo, nell’ultimissima puntata qualcuno a cui ci siamo affezionati morirà di sicuro. Perché gli autori de “Il trono di spade” non hanno fatto lo stage alla Disney: il lieto fine scordatevelo. I bambini o vengono accoppati o gambizzati, nel migliore dei casi restano orfani e gli tocca iniziare a tagliare gole; le fanciulle se sono buone e belle vengono avvelenate, stuprate o fatte saltare per aria (e non sempre in questo ordine); gli eroi decapitati o mutilati; i ritardati schiacciati davanti a una porta, i nani traditi.
Ciò di cui non possiamo fare a meno in questa serie è il verismo della crudeltà che, infilato tra draghi e giganti, ci fa sentire meno sadici.
Come succede quando sei obbligato a recarti al SERT, ti daranno un po’ di merchandising per farti passare l’astinenza e allora sceglierai la maglietta con il lupo o con il totano dei Greyjoy, per fare lo sfigato con le palle (che poi i Greyjoy, diciamocelo, non è che brillino per questo). Oppure ti troverai su Amazon a cercare con la bava alla bocca la action figure di Hodor o di Brienne di Tarth. Io sceglierò quella del grasso ubriacone Robert Baratheon, ma non vi dirò mai il perché.
Quando finirà il Trono di Spade pregheremo i vecchi e i nuovi Dei che almeno ci mandino in onda uno spin off su Valirya o su i Guardiani della Notte. Andremo su youtube a cercare informazioni sulla fine che hanno fatto quei pochi che si sono salvati dal fuoco dei draghi o dall’altofuoco.
E sarà così fino a che qualche nostro amico pusher non ci spingerà verso una nuova serie per la quale rischieremo di nuovo l’overdose.
Perché si può anche vivere senza droghe, si può smettere con fatica di bere e di fumare e anche del sesso se ne può fare, con l’esperienza, a meno. Ma, fino a che siamo vivi, qualche dipendenza bisognerà pur averla.
despa-cito

Despa Cito

Il tormentone da milioni di click che ha dato il colpo di grazia alla mia già precaria relazione con il mio cognome.

Alla fine degli anni ’70 essere nati a Siena e possedere un cognome che non finiva per “i” (ma era preferibile uno che finiva per “ini”), era abbastanza raro. Invece non era raro essere preso in giro per quella “o” che lo chiudeva. Vaglielo a spiegare che, da parte di mamma sono discendente di quelli che hanno scolpito le statue del Duomo, di quello che ha restaurato l’affresco dietro l’altare della Santissima Annunziata, che il mi’ nonno era amico di Mastuchino e che il mì bisnonno era protettore di sette contrade (perché prima funzionava così, se volevi bene a Siena).
Non c’era verso, per gran parte dei compagni di classe ero un “terrone”. Uno, una volta mi spiegò che ero stato sfortunato perché se almeno il cognome fosse finito con la “a” potevo fare finta di essere di Milano. Ma con la “o” non c’era scampo: terrone!

Il nome te lo porti dietro a vita e io ne avevo uno che, per gli “amici” mi faceva sembrare il fratello della scimmia di Tarzan. Feci delle rimostranze a mio padre chiedendogli almeno di poter utilizzare il cognome di mia nonna paterna. “Lentini” era camuffabilissimo e mi avrebbe mimetizzato alla grande tra i vari Bossini, Cesarini, Lombardini, Ceccherini, Bernini, Bruschettini. Lui provò a spiegarmi che Cito vuol dire veloce e che i suoi avi non erano gli Zulù ma Pitagora e Archimede. Tuttavia ma non fu abbastanza convincente. Smisi anche di leggere Topolino per essere sicuro di non trovare tracce del mio trisavolo Archimede Pitagorico.

Il nome comune era Bianciardi, c’era almeno un Bianciardi in ogni classe (io ne avevo due). Per farsi burla di me il mio amico Duccio, dall’alto del suo “Naldini”, mi chiama ancora “Bianciardino”. Come a dire: “sei di Siena anche te, dai. Però meno.”
Al liceo la botta grossa arrivò quando quella splendida ragazza di terza mi chiese: “E a te perché ti chiamano Cito?”. Fu lì, credo, che iniziai a masticarmi le unghie.

Le ore di scienze erano tutte una risata; per gli altri. Quando la prof spiegava le cellule: citologia, citoplasma, citozoi, citomegalovirus erano come una puntata di Mr Bean. Peccato che Mr Bean fossi io. Vissi un attimo di pausa quando passò dal Tolomei una ragazza che di cognome faceva “Chiavai”. Ahahahahhah, chiavai!!!! Ma, maledizione, cambiò subito scuola prima della fine del quadrimestre.
Erano gli anni del “Drive-in” e la domenica sera Giorgio Faletti, che ancora non aveva scoperto di essere uno scrittore di best seller, faceva Vito Catozzo, il poliziotto terroncello tamarro con la pancia. Secondo voi come mi chiamavano a scuola il lunedì mattina? Cito Catozzo.

Finalmente arrivò la maturità. “Alè! Andiamo all’università, lì di gente con il cognome strano sai quanta ce n’è!!!”
Al primo esame di inglese il professore scozzese mi segna come “Gamoiero Ciko” (c’è qualche stupido amichetto che fa il giornalista che mi chiama ancora così). L’anno dopo, seduti all’appello di informatica generale, il professore ci chiama in ordine alfabetico. Quando dalla C passa alla D, inizio a temere il peggio. Lo faccio arrivare in fondo e, siccome non ero stato chiamato, alzo la mano. Scoprii così di essere stato iscritto come Ciro Giampiastro. E per giunta bocciai anche all’esame.
Con l’età ho imparato a conviverci (mi ricordo anche di aver consolato mio padre quando indagarono il sindaco di Taranto che si chiamava come noi e che “non gli somigghia pe nniente”, praticamente due gemelli omozigoti).
Ho superato le prese di culo, i versi della scimmietta, i saluti alla Padrino, le domande su cosa avrei fatto se avesse vinto la Lega.

Ma quando, per colpa di quella canzoncina di merda, che fa “Pasito, pasito”, da qualche mese la gente ha cominciato a chiamarmi Despa, mi viene voglia di andare all’anagrafe e dargli foco. E per combustibile uso un dj che ama il commerciale latinoamericano.

Ps. Babbo, si fa per scherzare.

insonnia

L’insonnia secondo me

Amici e amiche, faccio outing: sono cintura nera di insonnia. Terzo dan!

Con un ‘esperienza ormai ultra ventennale, posso scrivere un trattato sul perché e come si genera l’insonnia. Quella degli altri non ne ho idea ma la mia credo di avere capito come e quando si manifesta. La mia insonnia è un riflesso condizionato che si attiva in presenza di condizioni in cui la coperta è troppo corta per mancanza di energie, di tempo, di denaro o di stimoli, di ordine.

L’insonnia per mancanza di energie: è quella che mi capita con maggiore frequenza. Più sono stanco e meno dormo. Il problema è che meno dormo e più sono stanco. Capita di arrivare a casa, cenare, accasciarsi sul divano e perdere la vita per un’ora e in quarto e poi, verso le 23.00, risvegliarsi con gli occhi a civetta e chiedersi: “E ora che cazzo faccio fino a domattina?”. Perché il sonno è come la Pasqua, quando arriva arriva (meglio se non stai guidando). Ma quando se ne va, non c’è Pasquetta. E’ andato. Fine. Se ne riparla domani dalle 21.45 alle 23.00. E durante la notte insonne, te che sei lungimirante, nel senso che prevedi che domani pomeriggio in riunione parlerai come Sloth dei Goonies tra gli applausi degli astanti, cerchi di portarti avanti con il lavoro del giorno dopo. E capita anche che vengano fuori delle ottime idee che, facendo entrare in circolo una spruzzata di adrenalina, ti levano le briciole di sonno che ti erano rimaste.

L’insonnia per mancanza di tempo: è quella che accade quando ti rendi conto che ti si sono accumulate trecento cose da fare di cui ti manca da fare il 4% per arrivare in fondo ma che ti generano un’ansia micidiale. Un piccolo trucco per superarla immediatamente è quella di farsi una bella lista di cose da fare. Di solito alla fine della lista ti addormenti per 3 quarti d’ora che, nell’economia generale della giornata sono come una ricarica telefonica da 2 euro (serve a poco ma meglio di niente).

L’insonnia per mancanza di denaro: quando si verifica, solitamente, non passa in un periodo breve. Si curerebbe con una bella vincita al lotto, non dico Superenalotto eh, l’insonne per mancanza di denaro ha aspettative basse, che di solito coincidono con le cartelle di Equitalia che ha fatto rateizzare al commercialista. Da questo tipo di insonnia sono esenti i menefreghisti e i cascatori in piedi. Per tutti gli altri non c’è nemmeno più Mastercard.

L’insonnia per mancanza di stimoli: la noia si nasconde letteralmente dentro la parola insonnia, fateci caso. Quando siete apatici, senza motivazioni, senza cose pianificate da portare in fondo, è proprio lì che perdete il sonno. L’avere tempo a disposizione, mentalmente vi tiene svegli per non perdere il tempo del sonno che sarebbe prezioso per pensare a come riempire il tempo della veglia. Il ragionamento è un po’ contorto ma se lo leggete con calma lo capite. Tanto avete tutta la notte per rimuginarci sopra.

L’insonnia per mancanza di organizzazione: è quella che succede perché non avete organizzato bene quello che avete da fare. Come tutti gli altri tipi di insonnia si cura cercando di mettere in fila le cose assumendo nel tempo la consapevolezza che c’è sempre qualcosa di prioritario e di secondario. E le cose secondarie a volte è bene lasciarsele dietro le spalle. Perché, anche se non dormi, la giornata sempre di 24 ore è. E di più non è possibile ottenere dal proprio tempo a disposizione

 

Qualunque sia la vostra insonnia abituatevi a gestirvela da soli e se vivete o volete bene a qualcuno che ne soffre non gli dite: “Devi dormire!”. Chiedetegli piuttosto: “Quale mancanza hai che posso aiutarti a colmare?”

 

PS. Sulla mia tomba scriveteci: “Risposa in pace. Almeno ora. Forse.”

L’immagine è tratta da una campagna pubblicitaria realizzata dall’agenzia brasiliana Carnaby per le palestre Corpus Academia Gym.

belly bag

Indizi che ti fanno capire che sei grasso

Una sera di qualche anno fa avevo invitato un po’ di amici a cena. Inevitabilmente, dopo il dolce parte il giochino alcolico: “Quanto pesa?”

A turno si sceglieva un oggetto presente nella stanza e tutti si doveva indovinare il peso esatto. Dopo la controprova sulla bilancia da cucina, chi si era avvicinato di meno, beveva. Facile, no?

Quando il tasso alcolemico era salito abbastanza, si passò a cercare di indovinare il peso dei presenti. C’era anche un noto parcheggiatore che, all’epoca era, diciamo, la mia custodia. Tutti gli attribuivano 145, 148 kg e lui spavaldo, era sicuro di essere 130 kg. Esatti.

Aveva ragione lui! La bilancia segnava esattamente 130 kg. A qualcun altro venne in mente di girare la bilancia e sul retro c’era scritto: “pesa fino a 130 kg”! Di più la bilancia non dichiarava.

Quella sera ho capito che, anche se lo vuoi negare agli altri e a te stesso, ci sono degli indizi che ti fanno capire che dovresti metterti a dieta. Eccone alcuni:

  • Quando sali sulla bilancia e stai sulle punte tipo Roberto Bolle sperando di rubare 3 etti.
  • Quando ti pieghi per legarti le scarpe e devi rialzarti per riprendere fiato due o tre volte perché la pancia ti strizza i polmoni.
  • Quando entri in un negozio di vestiti e chiedi sorridendo alla commessa: “Avete niente per me?” E lei risponde convinta: “No!”
  • Quando ti trovi a Broadway e leggi su un’insegna luminosa: “Fame” e la tua compagna ti dice: “Guarda che è un musical!”
  • Quando ti rendi conto di avere cambiato più dietologi te che allenatori Zamparini.
  • Quando ingenuamente dichiari durante una cena coi tuoi amici che ora fai la dieta a zona consigliata da un dietologo che tutti conoscono fin dall’infanzia e loro lo chiamano, lo mettono in vivavoce cantando “Fallo sudare, o Lello fallo sudare”. E dopo due mesi lui cambia lavoro.
  • Quando mentre fai all’amore non ti devi preoccupare soltanto della tua erezione e dell’altrui godimento ma anche delle doghe del letto.
  • Quando in confronto a te, i quadri di Botero sembrano opere di Modigliani
  • Quando vai da un tatuatore e ti fa un preventivo al metro quadro.
  • Quando a tuo padre, che non è esattamente un’acciuga, gli passi i vestiti di quando eri meno grasso.
  • Quando l’unica cosa che riesci a dire in cima alle scale è “ihhhhhhhh”….
  • Quando fai pipì e per vedertelo ti devi sporgere e, siccome ti pesa anche il capo, caschi in avanti e con la testa tiri lo sciacquone.
  • Quando, se dormi a pancia sotto, ti viene la gobba.
  • Quando trovi Rotolone e ti dice: “Ti dovresti riguardare!”
  • Quando sei in aereo e prima del decollo il tuo vicino di posto chiede alla hostess se può sedersi accanto a quell’arabo con lo zaino che sta pregando.
  • L’immagine è ripresa da una campagna del 2011 che pubblicizzava un corso di pilates a Istanbul e Ankara. L’autore è Fatih Şenay, potete vedere altri suoi lavori qui.

    piccioni

    Il gusto di tirare la merda

    Breve post rivolto a blogger locali dal giudizio più veloce del west e commentatori seriali compulsivi che rischiano di pestarla.

    Aneddoto:

    Una volta, mentre stavo viaggiando in treno verso Milano, mi capitó di incontrare un presidio dei Cobas del Latte. Al passaggio del treno iniziarono a sparare letame di vacca con gli idranti. Un bambino chiese alla mamma perchè ci piovesse addosso fango. Qualcuno fece notare al piccolo che quello non era esattamente fango. Una ragazza vomitò, per aggiungere una ciliegina su quella doccia non prevista e in omaggio con il biglietto di una corsa che faceva già segnare un pesante ritardo sull’orario di arrivo previsto. Molti dei passeggeri che viaggiavano con me, quando si erano messi a sedere su quel Frecciarossa erano dalla parte dei Cobas, qualcuno lo dichiarò pubblicamente (e anche io riconoscevo le loro buone ragioni) ma il fatto di essere stati ricoperti di sterco mentre stavamo viaggiando per lavoro, seppur dentro un treno con i finestrini chiusi, ci fece domandare che senso aveva tirare la merda a gente che non c’entrava niente con la loro sacrosanta protesta. Decidemmo che per protesta non avremmo bevuto piú latte. Io ho mantenuto la promessa per cinque anni. Nel frattempo mi sono dimenticato le  ragioni di quella protesta che ci concimò.

    Morale:

    anche se pensi di avere tutte le ragioni del mondo, tirare la merda senza guardare a chi la tiri, alla fine non conviene. Rischi di fare la fine del piccione e di finire in una tegamata. Perché il gusto di tirare la merda, alla fine ha sempre un gusto di merda.

    omino col cappello

    Teorema dell’ambulanza: l’importanza del sapersi mettere da parte.

    Il terribile incontro di un’ambulanza con la sirena spiegata e il sempreverde Omìno col Cappello, sulla sua potente autovettura: una metafora dell’Italia.

    Ci sono, nella vita di tutti i giorni, delle metafore che, nel momento in cui accadono, hanno il potere di farti riflettere. Ero in tangenziale che andavo alla svelta verso Dovemipare, amena località immersa nel verde tra Sarannocazzimiei e Fattiicazzituoi, quando ho sentito in lontananza una sirena che diventava sempre più forte e più vicina. Io e gli altri che erano sulla strada come me, abbiamo messo la freccia e abbiamo accostato per far passare l’ambulanza. Tutti, tranne un meraviglioso vecchietto stile Mr Magoo che, immagino a causa di una conclamata sordità, continuava a procedere a 60 km all’ora con la linea di mezzeria posizionata perfettamente al centro della propria Fiat Panda (quella fatta con l’accetta, per capirsi). Le braccia accorciate per avvicianare il petto al volante nella speranza che, accostando gli occhi al parabrezza, sarebbero tornate quelle diottrie ormai perdute con l’incedere dell’età.

    L’ambulanza, non potendo clacsonare, vista la presenza della sirena già attiva, ha iniziato a sfarettare, ma l’imperterrito signore ha continuato a procedere in direzione ostinata e fortunatamente non contraria, fino a quando, sotto gli occhi di una fila di macchine ferme con la freccia lampeggiante, non sono sparite entrambe, la Panda e l’ambulanza, a 6o all’ora dietro la prima curva. Ho sentito la sirena allontanarsi lentamente e, mentre le macchine davanti a me rientravano sulla strada, mi sono chiesto quanto tempo ci sia voluto all’ambulanza per arrivare a destinazione.

    Mi sono chiesto chi ci fosse sull’ambulanza: magari era un coetaneo di quell’omino, colpito da trombosi, che aveva già tirato il calzino, magari c’era una ragazza appena caduta di motorino, o una donna che stava per partorire, o un cittino arrotato sulle strisce. Ho sperato di no, che i volontari avessero soltanto fretta e avessero deciso, all’italiana, di accendere la sirena per scroccare un passaggio veloce in una tangenziale vuota. Perché poi succede sempre così, quando qualcosa ti disturba scegli sempre il male minore. Che non è mai la cosa giusta.

    E’ qui che parte il ragionamento sulla metafora: per quanto si dica: “largo ai giovani”, “lasciamo spazio alle nuove generazioni”, “facciamo sistema”, ” facciamoci da parte”, basta che ci sia qualcuno che non intende mettersi di lato e lasciare il passo, e tutto è bloccato. Il teorema dell’ambulanza funziona solo se tutti capiamo che quando c’è qualcosa che merita di passare avanti ai nostri interessi, il vantaggio per tutti è quello di mettere la freccia e fermarsi. Perché un giorno su quell’ambulanza ci si potrebbe essere noi, con la nostra priorità.

    Perché è vero che la strada è di tutti; ma basta un omìno col cappello (o senza) che si metta di traverso e tutto questo parlare di cambiamento, di futuro, di civiltà, si ferma come una fila di macchine sul ciglio della strada che non possono fare altro che offendere quell’omino di merda, in un post su Facebook. O pensare di votare il primo che ti dice che le Panda andrebbero rottamate. O, peggio, al movimento di quelli che vogliono abolire gli omìni col cappello.

    PS. Secondo voi dove andava quel Signore? Secondo me era diretto a Matelovai, frazione di Tubbattessi. Sì, ma con calma, eh.

    hiphop

    Confesso che ho molto peccato (e se trovo Hip Hop ne combino un’altra)

    Ognuno nella propria vita ha degli scheletri nell’armadio di cui si vergogna a morte. Anche io ne ho alcuni e me ne vorrei liberare. Anche perché iniziano a prudermi le mani a vedere i muri imbrattati da Hip Hop. Forse è meglio non trovarcelo mai.

    Pronti? Via!

    Una volta ho rubato un tergicristallo perché me lo avevano rubato a me (ma dopo 10 minuti mi sono pentito e l’ho rimesso dove l’avevo preso).

    Una volta ho trangugiato tutti i tramezzini di un happy hour non lasciando niente agli altri avventori.

    Una volta non mi sono fermato a uno stop, un camion mi ha portato via il paraurti e sono fuggito perché il camionista era grosso.

    Una volta ho suonato i campanelli e me ne sono andato a passo svelto.

    Una volta ho chiesto a un ristorante di non farmi lo scontrino.

    Una volta ho preso 6- a latino e ho detto a casa che avevo preso 6.

    Una volta mi sono impantanato a Belcaro con una che era fidanzata (non  con me, con uno che conoscevo).

    Una volta ho detto a mio padre che avevo fatto le cinque di notte per aspettare che facessero il pane.

    Una volta ho fatto la pipì dentro una scarpa di una cameriera della Prova Generale mentre lei stava servendo ai tavoli.

    Una volta ho telefonato alle suore di San Francesco e ho bestemmiato.

    Ma non mi è mai passato per il cervello di riempire i muri della mia città con la scritta Hip-Hop. Che tra l’altro fa anche cagare.